A ben vedere, si produce, a conclusione del nostro discorso e con lo smascheramento delle posizioni hegeliane, una curiosa inversione dei ruoli: la politica, intesa come attività fondamentale di chi amministra lo stato, si carica in Hegel di un valore etico quasi mistico e insuperabile in grazia della sua presunta universalità in sé, ma finisce con lo svelarsi come un’attività volta al conseguimento dell’utile. Secondo la nostra proposta, la politica, configurata sin dall’inizio come attività volta al conseguimento dell’utile, si carica per ciò stesso di un significato etico (nel senso però kantiano) nella misura in cui per il conseguimento dell’utile si intende il conseguimento di ciò che i cittadini ritengono desiderabile per se stessi e per la comunità in cui vivono, e ciò può essere determinato solo attraverso un metodo di ragionamento etico nel senso kantiano.

L’impostazione di Hegel frana in ogni suo elemento: la morale hegeliana è una morale contenutistica, che trova la sua realizzazione solo nell’eticità, e qui nello Stato in particolare, come valore in sé: questo valore in sé non ha altra giustificazione che non il suo ruolo di regolamentatore dei conflitti e della cooperazione nel sistema dei bisogni, e si riduce ad essere nient’altro che il valore dell’utile. Come contenuto, il valore morale dell’utile è stato sconfessato da troppo tempo perché se ne debba riparlare ora, e fra gli altri, proprio da quel Kant che Hegel cerca di ridicolizzare a proposito del «vuoto formalismo». La teoria etica hegeliana, che prova ad appiattire l’etica sulla politica, è fallimentare.Spogliate della loro presunta carica teorica, rivelatasi inconsistente, la posizione crociana ed hegeliana si rivelano nient’altro che l’ennesima riproposizione della Real Politik dal punto di vista dei governanti, come già in Machiavelli. Di queste due posizioni il minimo che si possa dire è che sono interpretazioni anacronistiche del ruolo e della natura della politica. Molto di più però si può dire se si osserva che in Hegel tale visione diventa non un punto di vista ma la (presunta) verità assoluta, dispiegata attraverso il cammino fatale della dialettica. La prudenza machiavelliana, assieme con le altre «virtù» del perfetto principe cinquecentesco diventano qui non un modello possibile, ma la dispiegazione stessa della necessità etica, per via del noto vizio hegeliano di assolutizzare proprio gli aspetti più empirici della realtà che si pone di fronte al filosofo: ricordiamo ad esempio la critica di Marx all’«empirismo acritico» di Hegel, specie nell’ambito della filosofia del diritto pubblico. E tuttavia non possiamo non notare che anche la filosofia marxista si è avvicinata a questa concezione della politica, sottolineandone in particolare l’aspetto dei rapporti di forza e della conquista dell’egemonia, fino alla celebre rivalutazione del concetto principe machiavelliano nella lettura modernizzante di Gramsci, che ha esplicitato il terreno comune su cui marxismo ed hegelismo fondano la loro visione politica.Come in molti altri campi, l’hegelismo ha mostrato qui la sua verbosità e la sua ingegnosa sofisticheria: ma non fornisce una valida alternativa alla nostra teoria, che riceve anzi dalla sua confutazione un’ulteriore riprova della sua validità.E’ però opportuno chiarire che la politica non deve avere, né deve darsi un contenuto etico: non è questo che intendiamo quando parliamo di una associazione fra politica ed etica.
La politica deve darsi regole di condotta etiche per eseguire al meglio il compito per cui è nata, che è un fine particolare e, al limite, utilitaristico: perseguire il benessere e la sicurezza dei cittadini. Resta ora da chiedersi cosa debba fare, o meglio come debba essere intesa la politica, per raggiungere questo obiettivo. In altre parole restano da determinare i possibili contenuti dell’attività politica che assolva a un fine particolare attraverso una condotta di sé mediante riflessione etica.

A questo punto è possibile una domanda: l’attività politica ideale, cioè massimamente efficace nel raggiungimento di questo obiettivo, ha bisogno di essere supportata da una teoria etica sostantivistica (che dovrà evidentemente superare le obiezioni fin qui mosse contro i tentativi di sostantivismo)? Deve l’attività politica valersi di contenuti etici già predeterminati per essere sicura che sarà rispettosa dei voleri dei rappresentati? Deve insomma essere seguace di una teoria della giustizia?L’accostamento alle parole che fanno da titolo all’opera di Rawls non è casuale: secondo noi, un’eventuale risposta positiva avrebbe come candidata principale se non unica proprio la teoria di Rawls. E ciò per le seguenti ragioni: la teoria della giustizia di Rawls è una teoria sostantivistica (pretende di definire ciò che è giusto e ciò che non è giusto) ma i presupposti della sua deduzione di ciò che è giusto o non giusto stanno in un’assunzione di partenza che, come abbiamo notato in precedenza, non è dissimile dall’impostazione kantiana. È insomma una teoria sostantivistica, ma al riparo da derive di eteronomia. Inoltre è una teoria della giustizia sociale, cioè di ciò che deve definirsi giusto o non giusto all’interno di una comunità politica, e dunque il suo oggetto è particolarmente affine al nostro. È infine una concezione di «giustizia come equità» (justice as fairness) che prende le mosse dal considerare le scelte che gli individui farebbero per darsi un ordinamento di regole, principi, e infine leggi e istituzioni.Questo chiama in causa appunto gli individui che entrano a far parte della comunità, come già abbiamo fatto noi accettando l’impostazione hobbesiana della nascita della politica a partire dal pactum sodalitatis. Se un immaginario mestierante della politica avesse bisogno del riferimento di una teoria sostantiva per sapere in ogni momento ciò che è giusto o ciò che non è giusto fare, potrebbe probabilmente scegliere la teoria di Rawls per mantenersi in accordo con i nostri presupposti. Ma è possibile, per le nostre esigenze, accettare anche che, salvo alcuni presupposti, il politico abbia la libertà (e la responsabilità) di scegliere da solo cosa decidere e come orientare la propria direzione politica per mantenersi eticamente in accordo con il rispetto delle volontà dei suoi rappresentati. A noi può bastare che le sue conclusioni e le azioni che ne scaturiscono di conseguenza siano in accordo con il ragionamento mediante test di universalizzabilità applicato sui cittadini che egli rappresenta; ovvero che prima di decidere un politico si chieda: cosa vorrebbero che facessi i miei rappresentati? In fondo il modo per rendere la politica un’attività etica non è affatto complicato e non si chiede altro che questo semplice test di inversione dei ruoli. Che, come vedremo nelle prossime puntate, genera da solo una teoria dei diritti.

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