Abbiamo detto concludendo la sesta puntata che avremmo mostrato nelle prossime puntate definitivamente che la teoria dell’autonomia della politica dall’etica merita di tramontare del tutto, in quanto non regge ad alcune critiche fondamentali.
Cominceremo pertanto con la critica radicale della teoria dell’autonomia della politica dall’etica, finora solo presentata per bocca dei suoi presunti (Machiavelli) o reali (Croce, Hegel) sostenitori. Nel corso di questo lavoro, arriveremo anche a una configurazione ancora più precisa del nostro modello di interrelazione fra etica e politica. 

Va chiarito sin da ora che naturalmente, come è parso chiaro da alcune indicazioni precedenti, il nostro è un modello prescrittivo: vale a dire che si preoccupa di indicare come dovrebbe funzionare la prassi politica per assolvere davvero agli obiettivi per cui è nata, e non si preoccupa certo di descrivere come essa è intesa o praticata oggi o nel passato. Va da sé che non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscere che il nostro modello non è certo il più adottato o il più difeso e sostenuto fra i rappresentanti della classe politica, ma il nostro compito è quello semmai di eliminare le possibili (false) giustificazioni teoriche al modo con cui è normalmente condotta e intesa la politica, mentre il problema di adeguare la prassi alla teoria è ovviamente un problema che esula dalle possibilità di questo libro e del suo autore.
Siamo convinti anche che la presunta teoria dell’autonomia della politica fornisca una giustificazione teorica a un certo tipo di prassi politica assimilabile a quello conosciuto con il nome di Real Politik, che è proprio il tipo di prassi politica che cercheremo, alla fine del presente discorso, di svelare nella sua inefficacia, disomogeneità e non rispondenza alle esigenze per cui essa è nata.
A oggi, non credo si possa individuare esposizione più esplicita della teoria dell’autonomia della politica di quella offerta da Croce nel suo sistema filosofico. Della posizione crociana ciò che possiamo osservare in primo luogo è che essa è inquinata di metafisica hegelista fino all’osso. Il presupposto fondamentale da cui Croce prende le mosse non è l’analisi della realtà, o l’esame di un modello ipotetico di contratto sociale da cui far scaturire l’iniziativa politica, ma semplicemente la dialettica dello spirito hegeliana. Croce, come è noto, la corregge in più punti, focalizzando una sottile e acuta distinzione fra gli «opposti» e i «distinti»: la principale distinzione insita nello spirito è fra l’aspetto teoretico e l’aspetto pratico, e, all’interno del momento pratico (che è quello che ci interessa) fra momento economico e momento etico. Se poi si tiene presente che il momento economico ricomprende l’attività politica e giuridica (la parola «economico» è evidentemente da Croce intesa in senso lato, secondo un significato che potremmo tradurre abbastanza fedelmente come ciò che è finalizzato a raggiungere un obiettivo con la massima efficacia), la politica risulta essere un «distinto» rispetto all’etica, e fra distinti non v’è relazione, nemmeno di opposizione, (come era in Hegel) figuriamoci di somiglianza o omogeneità. Per quale motivo fra questi distinti debba poi figurare il momento politico e il momento etico, ciò non lo si capisce dalla speculazione crociana, a meno di non risalire alla ricostruzione originale hegeliana inserita nella speculazione intorno alla filosofia del diritto. Pertanto, in merito al Croce, possiamo limitarci a notare come tutti i suoi riferimenti concettuali appartengono ad un codice, quello hegeliano, che può essere condiviso solo da hegeliani come lui. Perciò non possiamo esimerci dall’affrontare la lettura della filosofia del diritto hegeliana nella parte relativa al passaggio dalla morale all’eticità, dove sono contenuti i principali elementi della concezione della politica che poi Croce ha ripreso nella sua dialettica riveduta, se vogliamo davvero sbarazzare il campo dalla convinzione che vi sia qualcosa di fondato nel ritenere che la politica sia davvero un campo di azione spirituale distinto o peggio superiore all’etica.Prima di affrontare quest’ultima fatica, una precisazione. A ingannare Croce sull’autentica relazione fra etica e politica, oltre che il peso della nefasta eredità hegeliana, sta un fraintendimento non dissimile a quello che spingeva lo stesso Machiavelli, o Hobbes, a ritenere la politica distinta dall’etica: il fatto cioè che egli quando parla di «etica» abbia in mente l’etica sostantiva. Per la verità, lo stesso Croce riconosce che l’etica è il campo delle azioni che hanno di vista un fine universale, affermando qualcosa di non lontano da quanto sostiene Kant e quindi la nostra teoria. 

Ma se poi si domanda a Croce cos’è l’universale ahimé ecco la risposta metafisica e inquinata di hegelismo:

Che cos’è l’Universale? Ma è lo Spirito, è la Realtà, in quanto è veramente reale come unità di pensiero e volere; è la Vita, colta nella sua profondità come quell’unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso. Fuori dello Spirito, niente è pensabile sotto forma veramente universale. A parte l’evidente ubriacatura di stampo hegeliano di questa verbosa affermazione, appare evidente che per Croce comportarsi eticamente significa volere l’Universale, cioè lo Spirito. È un chiaro esempio di sostantivismo, che ricade, come tanti altri, nell’eteronomia. Croce non nota che un fine universale, contenutisticamente parlando, è qualcosa di irrealizzabile e sicuramente non di umano: quale decisione può avere un fine universale, in senso proprio? Soltanto una decisione che riguardi tutti gli abitanti del pianeta, evidentemente. Se è questa la base per dire poi che le decisioni politiche, in quanto riguardano solo alcuni abitanti del pianeta, non sono universali e quindi non etiche, allora è chiaro che ci troviamo di fronte a un grave errore.La verità è che Croce ha presente il riferimento kantiano alla universalità, ma non lo interpreta correttamente come «metodo di ragionamento»: non comprende cioè che kantianamente il fine della nostra azione per essere etica deve essere universalizzabile, e non universale. In questo senso, qualunque azione che si dia un fine particolare può essere universalizzabile, e dunque etica. Anzi, i fini di ogni azione sono sempre particolari (si rivolgono sempre a un numero limitato di situazioni e coinvolgono un numero limitato di persone) ma non vuol dire che non possano essere condotti mediante massime che tengano presente l’imperativo categorico. Salvare un bambino che sta per essere investito è sicuramente una azione particolare, che ha in vista un fine particolare (salvare quel bambino), ma è evidentemente condotta tenendo presente la massima che scaturisce dall’imperativo categorico. È anche salvare una nazione dalla carestia e dalla disoccupazione (ammesso che vi sia la possibilità, ovviamente) è un’azione particolare che ha in vista un fine particolare, ma è un’azione etica. Lo sarebbe per chiunque la compisse, lo è a maggior ragione se a compierla è la persona delegata a farlo, dato che egli ha il dovere di farlo, in quanto politico. Il fine delle azioni politiche è sempre particolare, come dice Croce: ma i fini di un’azione, anche di quelle etiche, sono sempre particolari, e non devono essere universali per essere classificate come etiche: devono invece rispettare un metodo di ragionamento universalizzabile, che è qualcosa di completamente diverso, come crediamo di aver ormai mostrato a sufficienza

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