Torniamo alla formulazione hobbesiana del concetto di funzione del potere sovrano: 
La funzione del sovrano (monarca o assemblea che sia) consiste nel fine per il quale gli è stato affidato il potere sovrano, cioè il procurare la sicurezza del popolo. Se è questa è la funzione del potere, il politico di professione non dovrà fare altro che assolvere a questo fine importante che è la garanzia della stabilità e sicurezza della popolazione. Questo fine dell’attività politica è un fine etico

Se è attività politica vera (cioè onesta e condotta secondo i canoni), lo scopo dell’attività politica è quello di raggiungere la massima soddisfazione delle volontà delle persone rappresentate. Vista sotto questa prospettiva, e alla luce delle considerazioni da noi svolte nelle puntate precedenti, l’attività politica assolve precisamente a un fine etico. Essa è morale proprio in quanto è utile. Ci pare allora di poter rispondere positivamente alla domanda in questione. Il politico è delegato dal popolo ad assicurare lo scopo fondamentale della sicurezza e della protezione. In quanto soggetto politico egli ha il dovere etico, assunto per contratto, di assolvere a questo scopo, che è peraltro uno scopo che ha a che fare con le volontà e gli interessi di certe persone che a lui si rimettono per la realizzazione compiuta di esso. E il legame etico si espleta nel dovere di rispettare il senso della sua elezione, o nomina o carica: garantire quindi che siano eseguite le richieste dei suoi sudditi. Il fine politico di proteggere i sudditi diventa allora un’azione etica.

La protezione di una o più persone è già, di per sé, un’azione etica nel senso in cui si intende comunemente questa parola. Ma non è questo l’aspetto che ci porta alle conclusioni proposte, tutt’altro: è il dovere di rispettare il contratto sociale con i rappresentati, che si concretizza a sua volta nella ricerca delle azioni e delle decisioni che meglio garantiscono sicurezza e protezione, in generale benessere, a determinare la natura etica dell’attività politica. Se il sovrano compisse un test di inversione dei ruoli, chiedendosi cosa i sudditi vorrebbero che egli facesse o cosa lui vorrebbe che qualcun altro facesse se fosse lui un suddito e l’altro il sovrano, ammesso come ammette Hobbes che il desiderio (la preferenza) principale dei sudditi è quello di essere protetti e in pace, la risposta che si potrebbe dare è una sola: fare tutto quello che è necessario e opportuno per raggiungere lo scopo di «procurare la sicurezza del popolo». Egli si sarebbe dato così una massima etica di azione, che potrebbe guidarlo nelle decisioni quotidiane che deve prendere nel suo mestiere di politico. Ma per Hobbes il sovrano risponde di questo dovere etico solo davanti alla sua coscienza, non essendovi limiti o vincoli al suo potere. E’ il momento adesso di lasciare Hobbes per seguire una visione più «aggiornata» del rapporto fra cittadini e potere: in teoria una forma di contratto, di patto fra i cittadini, esiste davvero nell’ambito delle norme costituzionali, che stabiliscono

1) quali sono i principi che lo stato (e quindi i suoi rappresentanti) deve seguire o a cui deve ispirarsi;

2) quali sono le uniche forme riconosciute di legittimazione di uno o più individui nel dichiararsi rappresentanti del popolo; (e fin qui siamo ancora nel solco tracciato da Hobbes)

3) quali sono i diritti che i cittadini hanno e non possono essere violati, nemmeno dai loro legittimi rappresentanti.Il terzo punto, è evidente, rappresenta la svolta rispetto a Hobbes.

Una svolta concettuale, maturata attraverso le riflessioni di Locke, Kant, Rousseau, Montesquieu, Hamilton, e tanti altri padri dell’idea dei «diritti inviolabili». Una svolta storica, se consideriamo il passaggio dall’assolutismo alla forme contemporanee di governo democratico, tutte rispettose dei diritti degli individui, in quanto uomini, singolarmente, e in quanto soggetti partecipi dello Stato, come cittadini.
Se i cittadini fanno un patto, si vincolano di certo a rinunciare a certe libertà e a certi diritti, in vista di fini più alti o più interessanti. Ora, i diritti inviolabili sono appunto quei diritti considerati troppo più importanti di qualunque altro fine per essere sacrificati alle decisioni del potere: e anzi sono proprio quei diritti che i cittadini vogliono vedere difesi in ogni caso e in ogni circostanza dall’autorità pubblica.I cittadini vogliono il rispetto reciproco di quei diritti, e fanno un patto e un contratto per questo, disposti a rinunciare ad altri privilegi e opportunità per questo. Il legittimo rappresentante dell’autorità pubblica, quando giura davanti alla costituzione, giura di assolvere all’obiettivo di rispettare quei diritti, prima ancora che rispettare i principi dello Stato e le sue leggi. Si sottopone cioè a una prescrizione etica, e nient’altro che etica. La prescrizione è etica perché egli si assume il dovere di rispettare un patto (e rispettare un patto è un’azione etica), il quale implica il difficile compito di valutare, nella scelta della decisione da intraprendere, le preferenze, i desideri e gli interessi dei cittadini con i quali egli ha stretto il patto. E alla luce della nostra teoria del ragionamento morale, tale scelta, se effettuata attraverso analisi delle preferenze dei sudditi effettuata attraverso test di universalizzabilità, o procedure affini, è una scelta etica.Non c’è allora nessuna differenza fra una decisione politica e una decisione etica? Non c’è nessuna differenza se intendiamo per decisione etica una decisione che tenga conto delle preferenze e dei desideri degli individui coinvolti nella decisione stessa, e che abbia per obiettivo il soddisfacimento di tutti i desideri o almeno della massima parte dei desideri dei soggetti coinvolti. E noi abbiamo assunto che tale è il significato di «decisione etica». Alla luce di questo significato, non si può negare che una decisione politica, se presa nel rispetto degli interessi e dei voleri dei propri rappresentati, è in tutto e per tutto una decisione etica.

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