La formulazione tuttora più compiuta e completa della teoria dell’autonomia dell’etica ci è stata fornita da Immanuel Kant nelle sue opere dedicate alla ragion pratica, e ne seguiremo inizialmente i suoi ragionamenti per pervenire a una definizione convincente e attuale del senso del concetto di «etica». 

Come è noto, Kant individua come caratteristiche fondamentali della «legge morale» l’autonomia e la formalità. Kant argomenta subito contro la materialità della legge morale: “L’unico e solo principio di tutte le leggi morali e dei doveri a essi corrispondenti è l’autonomia della volontà. Al contrario, qualsiasi eteronomia del volere non solo non può costituire il fondamento di alcuna obbligazione, ma è anzi contraria al principio stesso di questo, e alla moralità della volontà” (Critica della Ragion Pratica, a cura di Laterza, Roma-Bari 1997).

Con ciò Kant vuole intendere che la volontà libera non può essere condizionata da fini eteronomi, quali un impulso o una tendenza, siano anche essi compatibili o perfettamente coincidenti con le prescrizioni che deriverebbero dall’assoluto adeguarsi al richiamo della legge morale (da cui il noto rigorismo kantiano sul valore dell’intenzione). In questo senso, anche l’obbedire alla volontà di Dio, e tutte le prescrizioni che ne derivano rappresentano un fine eteronomo, come abbiamo già chiarito, da cui l’etica può e deve dissociarsi nel seguire la sua strada indipendente. Per la nostra indagine, il punto fondamentale è capire se il fine a cui fa riferimento Hobbes nell’assegnazione della funzione del potere sovrano, ovvero «il procurare la sicurezza del popolo», sia anche esso un fine eteronomo rispetto ai precetti della legge morale autonoma e libera. 

Così come proposto, non c’è dubbio che la risposta sia positiva: è ben noto che la legge morale oltre a essere autonoma deve essere formale, cioè non deve dirci cosa fare o non fare, per cui tale contenuto di azione («procurare la sicurezza del popolo») rappresenta certamente una ricaduta nella materialità. Ma a ben vedere, una tale interpretazione rigorosa della formalità kantiana rappresenterebbe una paralisi totale per la possibilità di dedurre dalla legge i comportamenti da applicare nelle varie situazioni. Noi però non ci avvarremo affatto di questa critica a Kant, anch’essa molto nota e ricorrente, perché secondo noi denota un fraintendimento forte della posizione kantiana, e cercheremo invece di dimostrare come la posizione kantiana non implica un irrigidimento della formalità tale da impedire la ricaduta nell’applicazione pratica, ma al contrario semplicemente un’indicazione di come un’azione vada effettuata per dirsi «etica», e non di cosa va considerato come contenuto dell’azione. In questo modo, potremo mostrare che qualunque azione che rispetti l’indicazione di quel come supposto da Kant può essere considerata etica almeno dal suo punto di vista. E successivamente, dimostrando che l’azione di procurare la sicurezza del popolo rispetta appunto l’indicazione di quel come regolato dai principi kantiani, dimostreremo che l’attività politica è dunque niente altro che attività etica.

Qual è la legge morale a cui Kant sostiene che bisogna ubbidire per rispettare le caratteristiche fondamentali di autonomia e formalità della moralità? Kant la espone a chiare lettere nel paragrafo 7 del primo capitolo del primo libro: è la celebre legge fondamentale della ragion pura pratica: “Opera in modo che la massima della tua volontà sia tale da poter valere in ogni tempo come principio di legislazione universale”.

Più avanti Kant a proposito di questa formulazione dice: “Qui la legge dice: si deve assolutamente procedere in questo modo. […] Qui la volontà è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche, e perciò come volontà pura, determinata soltanto dalla pura forma della legge. Motivo determinante questo che è considerato come la suprema condizione di tutte le massime”.

Un «principio di legislazione universale» è un principio in base al quale formulare un comandamento, una legge da rispettare. La parola chiave è qui l’aggettivo «universale»: la legge deve essere tale da valere sempre, in ogni luogo e in ogni tempo. Ciò significa che deve essere giustificabile sempre, di fronte a qualunque situazione e a qualunque circostanza. In sostanza, il soggetto morale deve agire affinché la sua azione rispetti un principio di legge universale, e cioè un principio che possa essere inteso come legge per chiunque, in ogni tempo e in ogni luogo. In altre parole, il soggetto morale deve agire in modo che la sua massima di azione sia tale da essere scelta da chiunque altro al suo posto, in quella situazione (per cui chiunque la farebbe come propria, diventando così legge valida per tutti e quindi universale). Quando Kant dice che la legge comanda che si debba agire assolutamente «in questo modo», vuol dire secondo noi che va sottolineato il fatto che questo principio prescrive il modo, e non il contenuto, della nostra azione. Il contenuto della nostra azione non può essere prescritto da un principio, perché esso è inevitabilmente empirico, materiale, dipendente di volta in volta dalle circostanze. L’importante è che il contenuto della nostra azione (ciò che noi decidiamo di fare) rispetti quella regola, ovvero la universalità del principio che la sorregge. Salvare un bambino che sta affogando o aiutare una vecchietta ad attraversare la strada sono due azioni dal contenuto molto diverso, ma nell’ottica kantiana rispettano entrambi il principio di universalità, perché rappresentano ciò che chiunque farebbe al posto nostro. 

Ecco perché Kant parla di «suprema condizione di tutte le massime»: si ribadisce che ogni massima è libera di poter essere definita come si vuole, a patto che rispetti la suprema condizione di obbedire a quella forma, a quel modo di configurarsi, che altro non è che poi la universalità, o meglio, la «universalizzabilità» del precetto morale.

Abbiamo dunque dimostrato che il principio kantiano non implica un irrigidimento della formalità tale da impedire l’applicazione pratica, ma anzi consente al soggetto morale una certa libertà di decidere cosa fare, stante il come che gli è inevitabilmente dettato dal principio stesso. Abbiamo così lasciato aperta la possibilità che un’azione, o meglio un insieme di attività come quello hobbesiano di «procurare la sicurezza del popolo» possa essere annoverato fra le azioni etiche, in quanto, pur se ha un contenuto evidentemente molto esplicito, ciò non impedisce che possa essere un’attività rispettosa della forma della legge morale, che prescrive l’universalizzabilità.

La teoria etica fin qui delineata, dunque, a prescindere dalle varianti che la letteratura ci offre consentendo anche di scegliere l’impostazione più vicina alla nostra sensibilità, risulta essere una teoria del ragionamento morale, e non una teoria sostantiva della morale. In altre parole, tanto per ribadire un punto fondamentale del discorso, ci dice come dobbiamo ragionare per affermare che stiamo ragionando moralmente, e non quali massime seguire, quali valori difendere, quali principi sostenere nella nostra condotta morale. È soprattutto di questa caratteristica che ci avvarremo per dimostrare una volta per tutte come la separazione fra etica e politica che si è voluta vedere ed operare da Machiavelli in poi sia del tutto arbitraria e, anzi, decisamente pericolosa, come mostra il gigantesco discredito con cui oggi la politica è tenuta in considerazione dalle masse.

E’ appunto il momento nella prossima puntata di dedicarci a questo compito.

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