Abbiamo concluso la prima puntata della nostra esplorazione su “etica e politica” con la seguente frase: “la famosa teoria dell’«autonomia della politica» non è machiavelliana, in nessun modo, e che le osservazioni contenute nell’opera del segretario fiorentino, tanto celebri e proverbiali, non autorizzano in nessun modo ad attribuire a lui tale teoria”.

Oggi scopriremo: è davvero la politica un’attività autonoma dello spirito umano? È davvero la politica aliena da qualsiasi rapporto con altre manifestazioni dello spirito quali l’etica o la pratica?

Per rispondere a questa domanda in maniera seria e ponderata dobbiamo chiederci a quale scopo o a quali scopi l’attività politica risponda. Se l’attività politica costituisce il mezzo per raggiungere determinati fini, essa sarà indipendente dall’etica solo se i fini non sono etici. A oggi, una risposta non superata a questo interrogativo l’ha fornita Thomas Hobbes (lui sì vero filosofo e teorico della politica) nel Leviatano

La genesi della politica, secondo Hobbes, sta nella necessità di redimere i contrasti che sorgono quando gli uomini, immersi nella loro condizione naturale, sono liberi di esercitare, ciascuno, il massimo della libertà di cui dispongono, con l’inevitabile conseguenza di determinare uno scontro tra due o più volontà inconciliabili fra loro. È la celebre descrizione dello stato di natura: “Se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, diventano nemici, e nel perseguire il loro scopo (che è principalmente la loro conservazione e talvolta il loro piacere) cercano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro”.

Dallo stato di natura deriva, quindi, lo stato di guerra, il celeberrimo bellum omnium contra omnes, dal quale si esce attraverso l’accettazione di una comune soggezione a un potere di controllo la cui autorità sia riconosciuta da entrambe le parti e funga da arbitro nel dirimere i contrasti. I passaggi concettuali del filosofo inglese sono fin troppo noti perché sia necessario ripeterli. Basti la conclusione: “L’unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difenderli [gli uomini] dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci – perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente – è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o una sola assemblea di uomini (che in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’unica volontà)”

Di questa conclusione notiamo di passaggio un riferimento alla sicurezza come bene fondamentale che gli uomini vanno cercando dall’autorità a cui si rimettono per il giudizio dei loro contrasti (poco prima Hobbes fa un analogo riferimento alla pace come bene fondamentale desiderato dal diritto di natura) e un riferimento al concetto di maggioranza che ci sarà utile in futuro per alcune importanti implicazioni. Soffermiamoci invece sul riferimento al potere comune che emerge dal trasferimento del potere individuale di ciascuno a «un solo uomo o una sola assemblea», in sostanza a un solo «potere sovrano», come Hobbes lo chiama poco più avanti.

L’attività politica, sostanzialmente, inizia in questo momento, e consiste, complessivamente, proprio in quello sforzo di dirimere i contrasti e sorvegliare il rispetto del pactum fondamentale dei cittadini, oltre che di garantire la difesa dai nemici esterni. Questa attività politica è caratterizzata da diritti e doveri che competono al soggetto che la esercita, e cioè al potere sovrano (non si confonda la definizione hobbesiana di «potere sovrano» con il concetto di sovrano come persona fisica, dacché Hobbes, anche nella citazione da noi riportata, nel Leviatano non lega la sovranità assoluta all’idea di monarchia). Hobbes individua 12 diritti fondamentali del potere sovrano, tutti legati all’idea che per garantire ad esso l’esercizio adeguato dei compiti prescrittigli dal patto sociale essi vadano riconosciuti e concepiti come indivisibili, che rappresentano poi il nucleo della sua concezione assoluta. In realtà questi diritti sono piuttosto obblighi dei sudditi, fra cui quello di non poter più cambiare forma di governo una volta nominato il potere sovrano, di non potere confiscare tale potere, di non poter protestare contro la proclamazione del potere sovrano, di non poter accusare il sovrano di ingiustizia, di non poter punire il sovrano, e così via. Nella versione del pactum fondamentale e del trasferimento di potere verso l’autorità formulata tra l’altro da Locke e Rousseau, come è noto alcuni di questi obblighi dei sudditi vengono meno, configurandosi anzi come diritti che il suddito ha, sempre nell’ottica che il pactum serve a tutelarlo e a garantirgli pace e sicurezza, per cui il potere che si configura a seguito del patto deve mantenere tali garanzie altrimenti non ha diritto a esistere e il suddito può sentirsi legittimamente sciolto dal vincolo di rispetto del patto. Questa formulazione dell’ipotesi del patto determina il configurarsi di un diritto di natura simile in parte a quello inteso da Hobbes, ma con in più la fondamentale caratteristica dell’inalienabilità di questo diritto, anche a seguito del patto stretto con gli altri simili, cosa che Hobbes non riconosce

Per la delineazione della nostra teoria della politica questa distinzione fra Hobbes e i successivi rappresentanti della teoria del diritto naturale è fondamentale, ma qui possiamo per ora prescindere da tale distinzionee proseguire nella ricerca di una definizione del «fare politica». La troveremo facilmente nel capitolo trentesimo, intitolato proprio «Funzione del rappresentante sovrano»: “La funzione del sovrano (monarca o assemblea che sia) consiste nel fine per il quale gli è stato affidato il potere sovrano, cioè il procurare la sicurezza del popolo, a ciò è obbligato dalla legge di natura, e di ciò deve rendere conto a Dio, autore di quella legge, e a nessun altro al di fuori di lui. Inoltre, per sicurezza si intende qui non una mera sopravvivenza, ma anche tutte le altre soddisfazioni della vita che ognuno possa procacciarsi con lecita industria senza pericolo o danno per lo stato. […] Va da sé che ciò debba essere realizzato non già con una cura rivolta singolarmente agli individui – a parte la loro protezione da eventuali torti lamentati, ma attraverso una generale previdenza attuata nella educazione pubblica – impartita sia con l’insegnamento diretto sia con l’esempio – e nella promulgazione e nella effettiva applicazione di buone leggi, alle quali gli individui possano riferire i propri casi specifici”.

Cosa intenda Hobbes per «buone leggi» è facilmente intuibile dal contesto: buone leggi sono, ancora una volta, quelle che il sovrano promulga per assolvere il suo fine, cioè leggi che tutelino la sicurezza e il soddisfacimento dei cittadini suoi sudditi. Come è noto, Hobbes sacrifica a questo fine fondamentale molti se non tutti i diritti dei cittadini che oggi chiameremmo «diritti inalienabili» o con termine ancora più moderno «diritti umani». Ma anche restando nella prospettiva di Hobbes, tutt’altro che condivisibile, cosa ci autorizza a dire che questa definizione della attività politica non abbia nulla a che fare con l’etica? Non è proprio un compito etico quello che il sovrano si impone, considerando che dei mezzi con i quali realizzare il fine non deve rendere conto, giuridicamente parlando, a nessuno? Il mezzo impiegato per giungere al fine fondamentale (una legge o un provvedimento, poniamo il caso) sarà considerato giusto o non giusto, buono o non buono, se, evidentemente, assolve al fine in questione. Ma è sufficiente questa considerazione a sostenere che la politica non ha nulla a che fare con altre sfere di attività spirituale, e precisamente con l’etica (che è l’unica candidata, evidentemente, a entrare in relazione con considerazioni di questo tipo)? 

In primo luogo dobbiamo liberare il campo da un fraintendimento, che è stato sicuramente colpevole della separazione così netta fra etica e politica che si è voluta vedere da Machiavelli in poi. Per etica non dobbiamo intendere ciò che intendevano i contemporanei di Machiavelli o di Hobbes, o gli antichi, ovvero un nucleo di regole e di modelli di comportamento atti ad ottenere la salvezza spirituale e ultraterrena. Tutto ciò, evidentemente, non ha a che fare con l’etica concepita in un senso moderno (diciamo da Kant in poi) ma con la religione. Nel nostro ragionamento utilizzeremo una nozione di etica nel senso di un’attività dello spirito autonoma, indipendente, ed estranea a quelle considerazioni che Kant chiamava «eteronome» e che hanno a che fare con fini ultraterreni. Pertanto, non è per noi morale o etico ciò che è giusto in sé o ciò che è giusto in quanto voluto da Dio. In questo senso, un’azione politica è liberata dal peso di essere giudicata secondo presupposti che, più che morali nel vero senso della parola, sono moralistici, secondo una distinzione fra i due campi semantici che né Machiavelli né Hobbes potevano concepire nel loro vocabolario, dati i tempi, ma che noi possiamo e dobbiamo tenere presente.

Liberati di questo possibile fraintendimento, ha allora molto senso chiedersi se la scelta dei mezzi adeguati per raggiungere il fine della sicurezza e della tutela di un popolo è un problema di etica, o è solo un problema di «politica». Se fosse vera la prima risposta, allora ne verrebbe fuori che la attività politica non è altro che un ramo particolare dell’attività etica, e precisamente quel ramo che si occupa delle scelte che i capi di stato devono fare per rispettare quel fine per il quale essi sono stati nominati, eletti, riconosciuti o delegati come tali.

Per rispondere a questa domanda, una volta che si sia accettata la definizione proposta da Hobbes del  «fare politica», sarà necessario chiarire cosa si intende per «fare etica» o, per dir meglio, comportarsi eticamente.

Categories: Articoli

0 Comments

Lascia un commento