In questa serie di articoli presenteremo considerazioni sul rapporto indissolubile fra democrazia e diritti umani e cercheremo di mostrare non solo il legame imprescindibile e necessario (in senso prescrittivo) fra democrazia e difesa dei diritti umani, ma anche il valore dell’obbligo morale, ancor prima che giuridico, del rispetto di questi diritti da parte del potere statale. Naturalmente un tale lavoro non può prescindere da una definizione seria e rigorosa del concetto di «diritti umani», e già qui sorgono i primi problemi. 

Annesso al problema della definizione di cosa siano i «diritti umani» (disgiunto dall’ancor più corposo problema della definizione di quali e quanti siano i «diritti umani») è infatti il problema della origine e della validità di tale concetto. E su questi problemi la filosofia giuridica, morale e politica si scontra da non meno di cinque secoli, vale a dire dall’inizio dell’età moderna. 

Cominciamo dal problema della definizione: fermo restando che sia sufficientemente chiaro almeno in senso generico cosa si intende quando si parla di «diritti umani», il primo problema in sede di analisi è se questo è il nome corretto da dare a tali diritti. Altre proposte sono state in effetti avanzate, e fra queste la definizione di «diritti individuali», «diritti dei cittadini», «diritti fondamentali», «diritti universali», «diritti innati», «diritti naturali». Tutte queste definizioni potrebbero essere usate come sostituti di quella oggi tradizionalmente usata, ma a ben vedere ognuna di queste ha sfumature sue specifiche, che sottolineano un aspetto particolare e in alcuni casi rivelano anche una precisa posizione ideologica, come nel caso di «diritti individuali», «diritti dei cittadini», «diritti innati», «diritti naturali». Precisiamo subito che noi utilizzeremo di qui in poi con consapevolezza e per precisa scelta terminologica la definizione oggi in uso, «diritti umani», perché ci sembra la meno impegnativa, e dunque la più utilizzabile universalmente, dal punto di vista ideologico. 

Per molto tempo la concezione filosoficamente dominante sui diritti umani è stata il giusnaturalismo, che ha avuto il merito imperituro di sottoporre per la prima volta all’attenzione del mondo questo problema come un problema specificamente filosofico. Che ciò sia accaduto in conseguenza del fatto che il giusnaturalismo del sei-settecento sia specchio di certe problematiche storiche di primo rilievo, come le guerre religiose, i disordini civili e l’affermarsi delle monarchie assolute, possiamo darlo per scontato senza ritornarvi sopra, tanto è comune il giudizio degli interpreti su questo punto. Il giusnaturalismo intende i diritti umani come diritti che l’uomo ha per natura. Esso pone l’equivalenza perfetta fra «diritti umani» e «diritti naturali» e indica nella natura dell’uomo la genesi di una serie di prerogative che, proprio in quanto naturali, non possono essere soppresse o impedite da alcuna autorità. 

La teoria giusnaturalista riesce a difendersi dalle critiche finché si mantiene sul piano generico della indicazione di alcune prerogative fondamentali individuate come diritti naturali. La teoria entra in crisi quando si tratta di definire i contenuti di tali diritti, cioè precisamente quali e quante siano le prerogative degli esseri umani che vadano individuate come diritti. La proliferazione delle «richieste di diritti» tipica dell’età contemporanea ha reso ancora più problematica la posizione classica giusnaturalista, aprendo la strada alle critiche del positivismo giuridico. Il problema fondamentale resta la definizione dei contenuti: quali sono i diritti fondamentali di cui ogni essere umano deve usufruire (giacché non v’è dubbio che qualunque sia la formulazione terminologica e semantica scelta, questo è il senso della questione «diritti umani»)? In che modo essi si possono determinare e quantificare? Come essere sicuri che tale determinazione di contenuto sia davvero valida per ogni essere umano e non sia invece suscettibile di relativizzazione culturale, o religiosa, o di altro genere (come oggi si sostiene da molti ambienti politici critici della «presunta» universalità dei diritti umani, che secondo loro sarebbe nient’altro che un mascherato tentativo di occidentalizzazione dei valori culturali)?

Noi intraprenderemo una strada che per fortuna può evitare la risposta a queste difficili domande. Non cercheremo la determinazione di contenuto della formula «diritti umani» (qualunque tentativo in tal senso non potrebbe mai avere la pretesa di essere definitivo e davvero universale) ma piuttosto una definizione del senso della espressione tale da poter essere accettata universalmente in virtù di certe premesse teoriche. Quali e quanti siano i diritti umani resterebbe un problema al di fuori del nostro sforzo di determinazione: eviteremo così di esporci alle critiche dei relativisti e dei fautori delle distinzioni culturaliste. 

La nostra definizione del termine «diritti umani» è questa: diritti umani sono quegli interessi e quelle esigenze espresse dai membri della costituenda comunità politica all’atto della costituzione del patto sociale che, se non rispettati da parte dell’autorità che controlla e gestisce il potere centrale, conducono al rifiuto del patto e dunque alla sovversione legittima del potere da parte dei cittadini sottoposti a tale autorità. È una definizione che ovviamente presuppone quello che classicamente possiamo denominare come «diritto di resistenza», ma che forse più indicativamente possiamo definire come «diritto al buon governo».

Piuttosto è qui da osservare come tale definizione abbia il vantaggio di superare alcune classiche aporie della questione «diritti umani»: è anzitutto una definizione che appare accettabile ai difensori del relativismo culturale, in quanto non definisce contenutisticamente i diritti, ma ne lascia la definizione alla singola comunità politica, e si consente pertanto che comunità caratterizzate da diverse culture o diverse religioni abbiano diverse prerogative ed esigenze da voler vedere difese. Il prezzo da pagare, apparentemente, a questa concessione culturalista è l’universalità del concetto di diritti umani, ma non certo la loro inviolabilità o imprescrittibilità. I diritti riconosciuti dai cittadini come quelle esigenze fondamentali e fondanti il patto sociale e la legittimità del potere centrale restano intoccabili, pena il sovvertimento del potere in quanto non più legittimo.

Inoltre, la definizione proposta è chiaramente di stampo non naturalista, ma storicista, nel senso che «diritti umani» sono evidentemente quello che le singole comunità storiche vedono di volta in volta come elemento fondante di ciò che caratterizza il loro vivere comune, nell’ottica del modello del patto sociale. Non si deduce, insomma, dalla definizione proposta un elenco di diritti destinato a valere per sempre e per chiunque: i diritti umani diventano diritti storicamente fondati.

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