Nelle puntate precedenti abbiamo notato come la distorsione del principio weberiano di rappresentanza della nazione intera abbia portato alla conseguenza principale, che mi sembra sufficientemente accreditata di realtà, che l’elettore è tradito e nessuna azione politica è mossa realmente dal desiderio di rispondere alle volontà dei cittadini, ma nel migliore dei casi dallo sforzo di far andare avanti la macchina dello stato più avanti che si può. 

La teoria ha qualcosa da dire su tutto questo: il problema della falsa rappresentanza, per dir così, è un problema etico, nella misura in cui la condotta di un politico di fronte al pubblico dei suoi elettori è una condotta etica, secondo i presupposti della nostra teoria. 

Con ciò non si vuol dire che è un problema che va abbandonato alla coscienza della classe politica, tutt’altro. Come alcuni problemi etici vengono risolti dall’ordinamento giuridico sanzionatorio quando la condotta individuale si mostra suscettibile di pressione esterna solo da parte del potere deterrente della norma coattiva, così resta da chiedersi se questo specifico problema etico può essere risolto da un intervento giuridico. In sede di teoria non si tratta di determinare qual è l’intervento giuridico migliore (compito semmai di ingegneria istituzionale), ma solo se esso è possibile, concretamente realizzabile, e quali possono essere le sue conseguenze. 

Una soluzione a questa politica di «doppio gioco» del rappresentante non può essere, come abbiamo detto, quella di imporre giuridicamente la rappresentanza formale di tutta la nazione: un tale imposizione non può far sentire la sua forza al momento del voto o di una decisione, perché questi potrebbero essere sempre spacciati come voti o scelte fatte per garantire l’interesse della nazione. 

Mai norma costituzionale è stata più violata del divieto di mandato imperativo. Mai principio è stato più disatteso di quello della rappresentanza politica. Ma in una società composta di gruppi relativamente autonomi che lottano per la loro supremazia, per far valere i propri interessi contro altri gruppi, una tale norma, un tale principio potevano mai trovare attuazione? A parte il fatto che oggi ogni gruppo tende a identificare l’interesse nazionale con l’interesse del proprio gruppo, esiste un qualche criterio generale che possa permettere di distinguere l’interesse generale dall’interesse particolare di questo o di quel gruppo o dalla combinazione di interessi particolari di gruppi che si accordano al dispetto di altri? Chi rappresenta interessi particolari ha sempre un mandato imperativo. E dove possiamo trovare un rappresentante che non rappresenti interessi particolari? (Bobbio, Il Futuro della democrazia)

E’ evidente la difficoltà di superare questa impasse. Dai tempi del dibattito all’assemblea costituente francese che generò la costituzione del 1791, la democrazia ha fin qui navigato in una sorta di dolce illusione: quella di poter credere all’esistenza di una rappresentanza autenticamente ed esclusivamente politica. Questa impossibilità, probabilmente costitutiva al ruolo del rappresentante, non può essere ulteriormente mistificata, una volta che sia chiaro, come è chiaro nelle società complesse attuali, che non può esistere un ruolo politico quale quello del «rappresentante della nazione», almeno fra i rappresentanti eletti dal popolo. Anche perché è il popolo a non esistere più come massa uniforme (ammesso che sia mai esistito come tale): nelle democrazie attuali oggi non esiste certo un popolo, ma una totalità organica e complessa e multiforme di gruppi, ceti, classi, categorie, generazioni, a continuo confronto fra di loro. 

Una soluzione può essere però l’imposizione di una norma giuridica che vincoli il rappresentante a decisioni e scelte rispondenti esclusivamente alle volontà e gli interessi del gruppo che rappresenta. In altre parole, l’applicazione giuridica del mandato imperativo, o vincolato, legata a un «contratto» di rappresentanza esplicito che l’eletto tiene con i suoi elettori, fuori dalle mediazioni ingannatrici dei partiti. Esso renderebbe espliciti, da occulti che sono, i legami fra rappresentante e (autentici) rappresentati, rendendo visibili e pubblici in ogni momento gli interessi che il singolo rappresentante, o il partito nel suo complesso, si prescrive di rappresentare.

Questo principio, lo riconosciamo, non ha mai avuto molta fortuna fra i teorici delle istituzioni democratiche. Esso chiama in causa paure totalitarie, dato che la revoca del mandato è sempre stata usata in contesti dittatoriali. Eppure, altra sorte, e molto produttiva, potrebbe avere se applicato in un contesto democratico, e sorprende che nessuno a quanto pare si sia mai soffermato su queste considerazioni. Lo stesso Bobbio, che pure ritiene il divieto di mandato imperativo un presupposto fondamentale delle regole democratiche, mostra che l’intoccabilità del mandato rappresentativo non deve essere considerata necessariamente un dogma della democrazia: 

Il principio della revoca del mandato è tutt’altro che indiscutibile. Una formula come quella leniniana […] «revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari, senza alcuna eccezione», deve essere interpretata e precisata se non la si vuole scambiare per la quintessenza del dispotismo. […] L’istituto della revoca del mandato non può essere giudicato né buono né cattivo se prima non si risponde alla domanda: revoca da parte di chi? ( N. Bobbio, Quali alternative alla democrazia rappresentativa?).

 A questa domanda una buona risposta potrebbe essere «da parte della legge», ovvero delle regole stesse democratiche, che è poi la risposta da noi ipotizzata.

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