VIII puntata

Nella puntata precedente abbiamo concluso: “È necessario allora che la democrazia esca da questa impasse, ripristinando il giusto spazio politico da assegnare all’interesse, e alla sua libera espressione, ma anche alla sua mediazione attraverso attori sociali intermedi e collettivi, che però non pare possano essere più i partiti tradizionali”.

Indaghiamo ora più a fondo di quali interessi parliamo e perché i partiti non possono essere più i mediatori di questi interessi.

Gli interessi, di norma, sono individuali, al più corporativi, categoriali: in ogni caso, essi sono sempre portatori di istanze egoistiche. Il più difficile problema della democrazia è sempre stato e sempre sarà quello di consentire che si esprimano liberamente senza bloccare lo sviluppo istituzionale. 

Questo problema è cresciuto smisuratamente da quando la democrazia si è fatta complessa, più organizzata socialmente, più differenziata nella sua composizione, meno organica e più dispersiva nei bisogni e nelle esigenze che la popolazione esprime. A rigore, oggi, non possiamo affatto parlare di popolazione, perché è un concetto che non esiste. Un popolo è un soggetto unico: e nella democrazia attuale questo soggetto unico non esiste. Non esistono più nemmeno le classi, con buona pace delle semplificazioni marxiste: oggi vi sono categorie, associazioni, e infiniti meccanismi di legame inter-individuale che non rispondono più alle vecchie, classiche schematizzazioni.

Queste schematizzazioni sono ancora quelle che guidano le visioni politiche verso la gestione della cosa pubblica: ciò è grave rispetto alla dimensione reale della situazione.

La dimostrazione principale di questa incapacità della democrazia di adeguarsi alla composizione attuale della società consiste nell’uso ancora invalso del sistema dei partiti. Essi sono l’emblema di un vecchio modello di funzionamento della mediazione politica degli interessi che non può più funzionare di fronte alle esigenze della società complessa.

I partiti sono creazione del secolo scorso: e la società, dall’Ottocento, ha fatto i grandi passi in avanti che tutti conosciamo. Perché riconoscere questa enorme evoluzione, ed accettare poi che a guidare la conduzione della politica sia una macchina istituzionale vecchia e logora?

I partiti politici, oggi, sono una struttura troppo elitaria e uniforme per poter rendere conto in maniera palese degli interessi dei loro rappresentati, che possono essere addirittura contrastanti, nella misura in cui oggi più che mai si assiste a una trasversalità sociale molto forte della composizione del voto. Non è più l’epoca dei grandi partiti di massa che rappresentavano l’elettorato secondo categorie ideologiche (i partiti cattolici) o categorie sociali (i partiti di ispirazione socialista): quell’epoca è tramontata, ma le strutture non sono ancora adeguate al cambiamento. Oggi per un partito di sinistra può votare il piccolo operaio come il grande imprenditore, e ciò perché da un lato le categorie ideologiche sono molto più confuse e disperse, e da un lato perché la condizione generale di diffuso benessere ha diminuito le barriere sociali fra le classi, creando peraltro gruppi e categorie di livello intermedio di difficile qualificazione sociale (Gramsci li definiva «gruppi sociali» e ammoniva già di fronte al fascismo imperante sul pericolo che si manifesta quando i partiti perdono la rappresentanza dei gruppi sociali in funzione dei quali sono nati).

In che modo in questa situazione il partito può rendere conto degli interessi di coloro che lo votano? Certo il piccolo operaio e il grande imprenditore avranno interessi molto diversi: eppure si trovano a richiedere entrambi un diritto di rappresentanza a una struttura (il partito) che non può che affrontare con difficoltà questa duplice esigenza.

Quanto più complessa è la società, meno omogenei si fanno gli interessi e le esigenze di coloro che vi prendono parte. I partiti sono una costruzione rispondente a esigenze e fini di una società storicamente superata, quella che corrisponde al momento storico della nascita della democrazia attuale, ma che non corrisponde più al momento storico che il mondo vive adesso.

È vero, anche i partiti si sono trasformati dalla loro nascita ad oggi. Ma la loro trasformazione non è stata funzionale all’adeguamento ai cambiamenti della società, bensì al tentativo di gestire questi cambiamenti in maniera tale da non perdere il proprio primato. Sono stati, in altre parole, e sono oggi più che mai, strumento di conservazione, non di cambiamento.

Su questo, è opportuno riportare qui una lunga osservazione gramsciana:

La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne […] Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni più importanti che riguardano il partito politico: e cioè, alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascono e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o in campo internazionale. […] La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa il partito finisce per diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria.

Si può solo aggiungere che mentre Gramsci guardava alla sola crisi del partito liberale, i meccanismi che egli ha descritto con così grande efficacia riguardano la crisi del partito in quanto tale, come istituzione storicamente determinata.

I partiti non possono dirottare la democrazia verso il cambiamento di cui ha bisogno: sono una macchina nata per gestire problemi di natura diversa, e trasformatasi oggi in una macchina funzionale solo all’auto-riproduzione. Essi sono il più grande tradimento del suffragio universale, perché rappresentano oggi il veicolo unico e univoco attraverso il quale le volontà degli elettori possono trovare sfogo. 

L’esistenza dei partiti, nella strutturazione e condizione attuale, rappresenta il più grave ostacolo al funzionamento armonioso del meccanismo della rappresentanza: i partiti convogliano i voti, ma non più le esigenze e gli interessi. Non rappresentano più nessuno, solo se stessi. E il potere eversivo e trasformativo del suffragio universale è ucciso dalla presenza di un mediatore che funge non da filtro, ma da otturatore delle esigenze sociali, in quanto impedisce che nelle sedi istituzionali parlamentari sia espressa la volontà delle singole persone.

Naturalmente, non si può pensare di fare a meno di quella funzione di mediazione e razionalizzazione degli interessi che il partito si era assunto all’inizio della sua storia: il Parlamento si trasformerebbe altrimenti in una gigantesca assemblea di condominio, dove ognuno cerca di tirare acqua al suo mulino, e dove la decisione politica diventa impossibile.

Si può però fare a meno dei partiti, e proprio perché non sono più né i detentori, né i garanti di quella funzione di mediazione

La possibilità esiste, non da oggi, ma oggi ha più risalto che mai: ed è compito di una nuova ideologia politica sostenere questa alternativa con convinzione, perché in essa vi sono le premesse storiche per la trasformazione della democrazia.

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