VII Puntata

Dopo aver sviscerato il fenomeno populismo dal punto di vista economico-sociale, e dal punto di vista culturale, affrontiamo qui il tema dal lato squisitamente politologico.

Nella scorsa puntata abbiamo concluso così: “La politica è sempre stata, in ogni dove, specchio in negativo della società. […] La domanda successiva allora è: sono i leader a formare (in questo caso in peggio) gli italiani o gli italiani a formare con il loro analfabetismo funzionale e le loro abitudini anti-culturali la politica?”

Possiamo subito rispondere intanto che fra i leader e gli elettori c’era una volta nel Novecento un apparato di mediazione molto organizzato, che faceva da tramite e da collegamento. E che nel terzo millennio non c’è più. Guardiamo nel dettaglio.

In queste settimane, abbiamo indagato il tema del populismo mostrando che i terremoti elettorali avvenuti in molti paesi rivelano che una grossa fetta sociale di quella che potremmo chiamare “sinistra tradizionale” ha votato populista perché sentitasi tradita dai suoi partiti di riferimento.

In pratica, la sinistra, un po’ dovunque dagli USA all’Europa, è stata punita, sembra, per i suoi compromessi col grande capitale e per aver rinunciato a essere anti-sistema, e a incarnare un’idea di lotta, in direzione del cambiamento, accettando al contrario il sistema vigente.

Più in generale, per esempio in Francia e in Italia, sono stati puniti i partiti tradizionali, sia di centro-sinistra che di centro-destra, proprio perché considerati compromessi col sistema.

L’Italia è un caso speciale perché ha già vissuto un’ondata populista negli anni ’90, con la crisi dei partiti di sistema e l’ascesa di due forze populiste, la Lega Nord e Forza Italia. Ma anche i paesi dell’est Europa hanno visto questo fenomeno negli anni ’90: il tramonto drammatico dei partiti comunisti li ha portati in molti casi ad assistere all’ascesa di gruppi e movimenti nuovi, non solo e non tanto anti-comunisti, ma proprio anti-partito.

Insomma, quello che in questi ultimi anni non sta funzionando più, e che in Italia e nell’est Europa già dagli anni ’90 ha smesso di funzionare, è il sistema partito. 

Tanto che in tutta Europa i gruppi di maggiore successo elettorale, da Alba Dorata a Podemos ai Cinque Stelle alla Lega e altri, sono partiti “nuovi”, nati al massimo 20 o 30 anni fa. E negli anni ’90 i partiti di successo erano anche allora nuovi, nati allora, come Forza Italia, Lega Nord ma anche Italia dei Valori o La Rete.

Tutti questi partiti nuovi hanno tre caratteristiche comuni: un forte leaderismo (che è altra cosa dalla leadership), pericolosamente contrario alla democrazia interna, apparati interni poco organizzati e ridotti all’osso, e il ripudio, anche solo verbale e nominale, della parola “Partito”.

Cosa è che non funziona più nei partiti, tanto da decretarne la loro crisi elettorale quasi definitiva?

Ciò che non funziona più, nei partiti tradizionali, è l’abbinamento fra capacità di farsi ascoltare e dovere di ascoltare: invece, nella storia novecentesca della forma partito, le due cose camminavano a braccetto, l’una conseguenza dell’altra. Il partito classico sapeva ascoltare i suoi militanti, e perciò sapeva anche parlare a nome di colui che ha ascoltato: questo gli consentiva la capacità di riscuotere consensi, e quindi farsi ascoltare, fra altre persone esprimenti gli stessi interessi di quel cittadino che è stato ascoltato. 

L’autoreferenzialità delle classi politiche, il male principale della nostra democrazia attuale, sta tutta nella totale trascuratezza del dovere di ascoltare da parte della macchina partito. Esso è la versione moderna dell’atteggiamento del Principe machiavelliano, che governa senza ascoltare, perché sa già cosa è meglio per tutti. Questo dovere di ascoltare invece è un dovere etico: è insito, come dovere, nel concetto stesso del patto di rappresentanza, che vincola l’eletto ai suoi elettori. Si può girare intorno a questo quanto si vuole, ma è questo lo scoglio, il punto di non ritorno di ogni democrazia vera: se viene meno il rispetto del patto di rappresentanza, la democrazia è svuotata del suo significato e del suo pregio fondamentale, il suffragio universale.

Perciò, è la concezione della politica incarnata dal sistema attuale dei partiti che deve cambiare.

Mentre i partiti tradizionali sono diventate macchine succhia-soldi (come le indagini del libro “La Casta” hanno da tempo dimostrato e come riporta anche Revelli nel suo libro La Politica senza la Politica”) si è fatta strada negli ultimi vent’anni una forma di politica che Revelli e altri autori chiamano giustamente post-democrazia, fatta di movimenti poco organizzati strutturati intorno a un leader, che ha un rapporto diretto col popolo. Non è una forma del tutto nuova, prima dei partiti del Novecento la politica funzionava così, ma allora gli eletti erano in stretto contatto con gli elettori. Adesso invece si sta generando quella che Revelli chiama “democrazia del pubblico”, in cui il leader di turno stringe rapporti con i suoi elettori direttamente, non passando per la macchina partito, ma attraverso la TV (prima) e ora i social e i media.

In questa operazione, si è perso il ruolo più importante che il partito novecentesco aveva assunto: il ruolo della mediazione degli interessi degli elettori.

Col risultato che senza questa mediazione, questo filtro, questo lavoro di fine politica, i leader finiscono non per mediare o educare o forgiare, ma per inseguire semplicemente gli interessi degli elettori, le loro paure, le loro ansie, le loro pance. Ed ecco nascere e crescere il populismo!

È necessario allora che la democrazia esca da questa impasse, ripristinando il giusto spazio politico da assegnare all’interesse, e alla sua libera espressione, ma anche alla sua mediazione attraverso attori sociali intermedi e collettivi, che però non pare possano essere più i partiti tradizionali. Quale prospettiva allora? Ne parleremo al prossimo appuntamento.

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