III Puntata

Ben ritrovati con l’appuntamento settimanale che ormai già da un po’ esamina, con l’aiuto di due libri di recente pubblicazione, il tema del populismo, e di come può essere combattuto. Qui di seguito la terza puntata, in cui seguiamo le analisi assolutamente preziose di Marco Revelli, La Politica senza la Politica, (Einaudi, Torino, 2019) e osserviamo nel dettaglio il caso di cinque esempi importantissimi

III PUNTATA

Per combattere un nemico serve conoscerlo a fondo. Se il populismo è l’attuale nemico delle democrazie (e vedremo nel corso dell’analisi perché lo è) bisogna esplorare più a fondo la genesi di questo fenomeno, che ha almeno tre matrici: socio-economica, culturale, e politica. Oggi, attraverso le analisi di Marco Revelli, approfondiamo quella socio-economica.

Abbiamo già detto nel corso degli articoli precedenti che il populismo, affermatosi un po’ dovunque nell’Europa di oggi e anche negli USA, ha scavalcato le tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra. Abbiamo anche detto che ha scavalcato i tradizionali modi di esprimersi della politica tradizionale, quella dei partiti, parlando direttamente alla pancia degli elettori.

Esploriamo quest’aspetto partendo stavolta non dalle tecniche di comunicazione o dai proclami populisti, ma dall’espressione di voto della popolazione che ha portato i vari Orban, Trump, Johnson, ecc. al potere, in particolare nel biennus horribilis 2016-17.

Analizzando i flussi di voto, Revelli nel suo libro osserva che Trump ha perso in maniera schiacciante nei popolosi stati molto urbanizzati della East e West Coast, feudo democratico, ma ha vinto in molti più paesi meno popolati, prendendo voti quasi uniformemente nell’heartland americana, cioè tra le terre percorse dalla leggendaria route 66. Trump ha preso voti dalle terre che fanno parte del cuore dell’America, che magari non muovono il grande capitale come gli stati evoluti delle coste, ma hanno una popolazione che evidentemente si è sentita da tempo poco rappresentata.

Gli Stati delle due coste sono una ridotta parte geografica degli USA (15% del totale) ma con 174 milioni di abitanti. L’heartland che ha dato vittoria a Trump copre l’85% del suolo americano ma ha “solo” 146 milioni di abitanti. Dunque Trump, sia detto per inciso, ha vinto col maggior numero di stati ma minor numero di voti, come spesso è accaduto nel sistema americano la cui costituzione assegna molto spazio politico ai singoli stati (gli USA sono una federazione del resto).

Ha votato per Hilary Clinton, in altre parole, quell’America che noi conosciamo (Los Angeles, Las Vegas, Detroit, Washington, New York). Ecco perché a noi europei è ancora più apparso strano che vincesse il miliardario dai toni sguaiati. 

Ma per lui non ha votato solo l’America geograficamente meno rilevante benché più estesa: hanno votato contadini, minatori, operai, oltre che il solito supporto della classe conservatrice repubblicana. Il grande capitale, i grandi centri universitari e di ricerca (di nuovo, l’America che noi conosciamo) ha votato Clinton.

Lo schema si ripete a proposito del referendum britannico sulla Brexit, sempre nel 2016: Revelli ci descrive che ha votato per rimanere in Europa la grande Londra e tutta la sua fascia intorno, Liverpool, altre grandi città industriali, ma il 65% delle Midlands ha votato per lasciare. E anche in questo caso, hanno votato per lasciare gli abitanti e lavoratori del vecchio settore manifatturiero, quello meno coinvolto dall’industria 4.0 e dalla new economy, dal business informatico, virtuale e transnazionale che passa per la City di Londra. Immagine simbolo di questo referendum è che i distretti dei minatori che negli anni ’80 lottarono fino al sangue contro la Tatcher pieni di ideologia socialista, hanno votato nel 2016 in massa per la Brexit. “La Sconfitta del lavoro”, la chiama Trevelli, o ancora “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, come dice Luciano Gallino: una colossale perdita di identità politica e ideologica che ha portato migliaia di persone che ingrassavano le fila dei democratici in America e dei laburisti in Inghilterra a votare per il partito o la fazione opposta.

Terzo esempio, stavolta 2017: le elezioni presidenziali in Francia. Qui non ha vinto il candidato populista, Marie Le Pen (sconfitta sonoramente al secondo turno con solo il 33% dei voti), ma due fatti sono significativi: il candidato vincitore, Macron, non è espressione dei partiti tradizionali (gollista e socialista) ma anche lui un outsider nuovo, che ha fondato un suo movimento, En Marche. E poi Marine Le Pen non ha vinto, ma ha preso il doppio dei voti del padre quando sfidò Chirac nel 2002, e ben quattro milioni di voti in più rispetto alle elezioni del 2012, quando arrivò terza e quindi non andò al secondo turno. Si potrebbe anche dire che al secondo turno nel 2017 sono andati due populisti di sponde opposte, un Renzi e un Salvini delle nostre parti, e comunque la destra populista di Le Pen è cresciuta in maniera enorme. 

E, avrete già indovinato, Le Pen ha vinto nelle campagne francesi, e in una vasta area nord-orientale non troppo modernizzata, mentre Macron ha vinto nell’area metropolitana parigina e nei distretti “che contano”, che muovono capitale ed esportazioni. Secondo Ipsos, Le Pen ha preso il 45% dei voti delle famiglie con reddito inferiore a 1250 euro e solo il 25% delle famiglie con reddito superiore a 3000 euro.

Quarto esempio: le elezioni politiche di settembre 2017 in Germania. La Alternativa per la Germania (AFD) si colloca come terza forza, tallonando la storica sinistra della Spd, prendendo quasi il triplo dei voti del 2013, mentre la CDU della Merkel perde l’8,6 per cento dei voti. Stiamo parlando di un partito che per bocca della leader Frauke Petry vuole usare le armi da fuoco contro i passaggi di confine dei rifugiati e ha proposto di cambiare il nome del Ministero della Migrazione in Ministero della Esplusione (vi suona familiare per caso?)

Anche qui, la geografia socio-economica conferma i dati precedenti: nella Germania Est, la più povera, arriva al 30-35%, nella Germania Ovest non oltre il 15%. Ma l’AFD ha preso voti anche nei distretti ex-industriali dell’Ovest dai redditi bassi.

Quinto esempio sono i paesi del centro-est Europa che tra 2016 e 2017 sembrano aver costituito un’alleanza anti-europeista, eleggendo tutti leader populisti, smaccatamente anti Europa e anti-immigrato: Orban in Ungheria è il caso eclatante (è già sulla scena da dieci anni), ma anche Babis in Repubblica Ceca, soprannominato dalla stampa estera Babisconi per i conflitti di interesse e l’impero industriale miliardario che lo rende il secondo uomo più ricco del paese (tre miliardari, Babis, Berlusconi e Trump, tre populisti, sarà un caso), o i nazional-populisti in Slovacchia, o i gemelli Kaczynski in Polonia (oggi ne rimane uno solo che ha la maggioranza assoluta in parlamento), fino all’Austria, che sempre nel 2017 ha visto l’avanzata imperiosa della FPO del vice-cancelliere Strache che si è preso voti a colpi di anti-islam e slogan come Patria del Cuore e Lavoro, non Immigrazione.

Il caso italiano, nell’anno successivo, elezioni 2018, lo vedremo nel prossimo articolo.

Ma ricaviamo da questa analisi già alcuni dati:

  1. il populismo non è un fenomeno passeggero, legato a una distrazione temporanea dell’elettorato o al carisma di questo o quell’altro leader. C’è in giro da tempo e ovunque.
  2. Per vincere il populismo, bisogna ascoltare la voce degli elettori dimenticati, di quegli strati della popolazione che non partecipano alla new economy e all’industria 4.0, ma al contrario che ne hanno subito le conseguenze.
  3. Questi elettori dimenticati erano, tendenzialmente, di sinistra o comunque espressione di classi “operaie”. Non è la destra che li affascina, ma la sinistra che non sa più essere attrattiva.
  4. Se gli elettori dimenticati erano espressione di settori economicamente in crisi, cosa succederà nelle prossime elezioni post-emergenza COVID? Se non vogliamo scoprirlo, è bene che i politici studino la questione. Nel prossimo articolo partiamo da qui.

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