Prima Parte

Incuriosito dalle polemiche fra gli (ex) alleati pd e 5s dopo il fallimentare voto unito in Umbria, e  stimolato un lettore di questa pagina, che mi ha sottoposto questo articolo:

provo ad approfondire alcune delle tematiche offerte dall’articolo, in chiave storico-teorica. 

E’ proprio vero, come sostiene l’articolo e come sostengono alcuni commentatori del voto in Umbria, che il voto dato al meno peggio è alla fine dei conti l’alternativa peggiore, perché fa crescere l’opposizione che si vorrebbe arginare?

Guardiamo cosa dice la storia: negli anni ’30 il Fronte Popolare delle sinistre che si costituì sia in Francia che soprattutto in Spagna nello stesso anno, 1936, fu un argine importante alla vittoria delle Destre. In Francia governò per due anni, dopo una vittoria schiacciante, portando il leader socialista Leon Blum al governo, e durante quegli anni di governo furono firmati gli Accordi di Matignon, che riconoscevano il diritto di associazione e l’aumento degli stipendi del 12%. Furono fatte le leggi che istituirono i primi 15 giorni di ferie pagate (congés payés), e le 40 ore della durata della settimana lavorativa (prima erano 48).

In Spagna vinse le elezioni, e soltanto l’insurrezione armata delle falangi guidate da Francisco Franco poté sconfiggerle con un colpo di stato. Arrivati al 1939, la storia di entrambi i Fronti confluisce dentro quella della seconda guerra mondiale, e non è perciò più utile per i nostri confronti. Ma proprio la seconda guerra mondiale vide alla luce un altro fronte, tutt’altro che di sinistra, ma altrettanto singolare e anomalo, quello tra Churchill Roosevelt e Stalin, contro i nazifascisti. Non è il caso di approfondire, perché vicenda ultranota, ma anche perché qui parliamo di alleanze politiche e quella fu un’alleanza militare, che segue altri criteri.

Tuttavia, sono tutti esempi di alleanze politiche che non hanno condannato chi le sosteneva, anzi.

In Italia, pochi anni prima, si ebbe l’esempio contrario, che a contrariis appunto prova la tesi che il meno peggio non è poi così male: nel 1921 PSI e PCI si separarono con il congresso di Livorno, lo stesso anno che Mussolini portò il movimento dei fasci a diventare PFI, Partito Fascista. E Sempre in quell’anno Giolitti ritenne che piuttosto che allearsi con le sinistre e fare fronte contro il fascismo, era meglio assecondare Mussolini, ritenuto una malattia passeggera, da lui come da Benedetto Croce (la definizione è sua). Quelle elezioni, in cui i liberali di Giolitti si allearono in lista con i fasci, aprirono la strada ai fascisti in Parlamento. Solo l’anno dopo ci fu la Marcia su Roma, e il primo governo Mussolini (è significativo che nemmeno negli anni seguenti e nelle elezioni del ’24 socialisti e comunisti italiani fecero fronte insieme, anzi, nel 1924 c’erano due liste socialiste, e una lista ciascuna per popolari, comunisti, repubblicani, altro che fronte popolare!). 

Il non fare fronte, in tempi più recenti, condannò l’Ulivo di Prodi, nato nel 1996, che pure aveva vinto le elezioni e governava solidamente da due anni, quando Rifondazione Comunista, uno dei partiti dell’alleanza, ruppe il fronte e lo fece crollare. E lo condannò di nuovo nel 2008, due anni dopo che Prodi aveva di nuovo con L’Unione (appunto una coalizione di forze di centro sinistra) vinto le elezioni contro Berlusconi, dimostrandosi sin qui l’unico leader di centro-sinistra ad averlo saputo sconfiggere.

Ed è poi così impensabile sostenere che l’avanzata della Lega, che nel 2013 era al 4,09%, dal 2013 a oggi, sia anche dovuta (oltre che, senza dubbio, all’indebolimento di Forza Italia) all’incapacità delle forze che le si oppongono di fare fronte insieme: nel 2013 e nel 2018 il Pd e i 5 Stelle hanno reciprocamente rifiutato sdegnosamente l’offerta dell’interlocutore per un governo di maggioranza unito, finché non ci sono dovuti arrivare a forza nel 2019, dopo l’estate folle (di cui racconto nell’articolo di esordio che trovate in cima a questa pagina)?

Dunque? 

Dunque attenzione ad affermare senza ombra di dubbio che il voto al meno peggio alla fine rafforza l’avversario. La tesi, di per sé, non regge alla prova della storia, né dell’attualità politica italiana. 

Naturalmente, non è vero nemmeno necessariamente il contrario. Si potrebbero trovare prove in altre elezioni in Europa o nel mondo che coalizioni messe in piedi per contrastare un rivale agguerrito non abbiano avuto successo. O per esempio citare la sfida Trump-Hilary Clinton, che dimostra che quando agli americani è stato offerto di votare il meno peggio, ovvero Hilary Clinton, gli americani hanno scelto di votare il bad original invece che quella che sembrava una sbiadita e non convincente copia.

Qual’è allora la conclusione? In politica, non è detto che se ne debba per forza trovare una. 

Ma una traccia pare delineata: quando le coalizioni non sono affazzonate, ma hanno una radice politica (per non dire ideologica, parola che poteva funzionare negli anni ’30 ma non oggi), queste reggono. E sono solide. Vedi Fronte Popolare Francese e Spagnolo. E quando le forze rette da una comune matrice politico/ideologica litigano e si separano per calcoli elettorali o addirittura personali, oppure si lasciano andare ad estremismi ideologici che portano al separatismo sono guai (come avvenuto in Italia negli anni ’20, ne parleremo nella seconda parte).

5 Stelle, Italia Viva e PD, (magari tutti i politici) dovrebbero studiare la storia, quali che siano le loro reali intenzioni. La storia non mente mai.

Seconda parte

In questa seconda parte intendo estendere l’analisi al tema: se gli estremismi , e le divisioni che ne conseguono, aiutano la causa ideologico-politica che intendono difendere, oppure no.

Cercheremo risposte nella storia recente, e cominciamo con quella che è stata la prima grande, coerente rivolta socialista della storia: le giornate di febbraio e soprattutto la rivolta di giugno del popolo operaio parigino nel 1848.

Il 23 febbraio una Parigi esasperata dalla crisi economica e dalla carestia, e dalla repressione delle manifestazioni operaie di Lione nel 1834, scese in piazza innalzando barricate in tutta la città, e costringendo la monarchia liberale di Luigi Filippo ad arrendersi di fronte all’impetuoso sollevarsi del moto repubblicano. La repubblica proclamata dagli insorti voleva essere, senza dubbio, una repubblica sociale: vi parteciparono radicali e giacobini e per la prima volta nella storia i socialisti Lamartine e Blanc, e anche un operaio vero e proprio. E, fra le prime decisioni, vi fu quella della tutela del diritto al lavoro e della creazione degli atelieurs nationeaux, gli opifici nazionali voluti dal Blanc. Una tale forza rivoluzionaria fece dire a un noto storico liberale, di tendenze certamente non autoritarie, come il Tocqueville, che

Quello che la distinse ancor più tra gli avvenimenti del genere accaduti da sessant’anni a questa parte fra noi, fu il fatto che essa non ebbe per iscopo di cambiare la forma del governo, ma di alterare l’ordine della società. A dir la verità, non fu una lotta politica (nel senso che avevano dato fino ad allora a questa parola), ma una lotta di classe, una specie di guerra servile […].

A giugno, dopo che le elezioni dell’Assemblea Costituente erano state vinte dai moderati, mostrando che la Francia non aveva gradito l’estremismo dei programmi dei socialisti parigini, il popolo operaio tentò la carta della rivolta armata, deciso a non farsi scavalcare dalla sconfitta elettorale, che, peraltro, come Marx andava teorizzando proprio in quegli anni, non andava nemmeno considerata come un ostacolo all’affermazione del potere operaio, giacché esso deve prescindere dal parlamentarismo. Ecco il giudizio di Tocqueville sulle giornate di giugno: 

Se la rivolta avesse avuto un carattere meno radicale ed un aspetto meno torvo, è probabile che la maggior parte dei borghesi sarebbero rimasti a casa loro; la Francia non sarebbe accorsa in nostro aiuto, la stessa Assemblea Nazionale avrebbe forse ceduto, o per lo meno una minoranza dei suoi membri lo avrebbe consigliato […] Ma l’insurrezione fu di tal natura che ogni transazione fu subito ritenuta impossibile e non lasciò fin dal primo momento che l’alternativa di vincere o morire […].

Tocqueville è un liberale, ed è chiaro che non sia pronto a parteggiare per l’insurrezione armata degli operai. Ma è appunto il suo punto di vista che ci interessa, cioè il punto di vista dei vincitori dello scontro armato che si ebbe a giugno, perché i vincitori di quello scontro non furono gli operai e i socialisti, ma la grande borghesia industriale, che provvide subito a porre un freno alla rivoluzione, dopo averla soppressa col sangue della repressione, attraverso l’affidamento della presidenza a un nome che non lasciava affatto sperare agli operai, Luigi Napoleone Bonaparte. La posizione del Tocqueville è estremamente interessante perché egli considera che fu proprio il carattere estremo dell’insurrezione a suggerirne la repressione senza troppi scrupoli, tanto che parla delle giornate di scontro come di «giornate necessarie e funeste».

Certo, Tocqueville è solo uno dei tanti testimoni, e per giunta di parte. Ma è proprio la parte che ci interessa: se davvero c’era qualcuno fra i deputati moderati dell’Assemblea Costituente disposto a concedere qualcosa al moto operaio, come sembra ipotizzare Tocqueville, di certo il radicalismo della rivolta impedì che anche questa possibilità si realizzasse. A questo punto la strada era aperta per lo scontro diretto, come d’altra parte volevano gli estremisti più convinti, ma lo scontro diretto vide l’affermazione dei borghesi, come del resto avvenne anche successivamente in tutti gli altri successivi episodi di conflitto sociale nel mondo occidentale industrializzato. Il proletariato non uscì mai vincitore, ma forse, se avesse rinunciato allo scontro, avrebbe avuto qualche possibilità maggiore di ottenere qualche risultato positivo. 

Nel 1848 non c’era spazio per una riforma a carattere integralmente socialista: ma i radicali che componevano il governo provvisorio, imbevuti di marxismo e di socialismo, non vollero o non seppero capirlo, e non cercarono di sostenersi attraverso un maggiore consenso, un allargamento della coalizione e attraverso il moderatismo: la domanda è se questo radicalismo aiutò gli operai parigini a difendere la loro rivoluzione o non li spinse, piuttosto, all’inesorabile sconfitta.

Analogo discorso si può fare per la rivoluzione parigina del 1871: vent’anni dopo il primo esperimento rivoluzionario a carattere decisamente sociale, Parigi era di nuovo in rivolta, e di nuovo pronta a imbracciare le bandiere rosse. Ad un esame superficiale sembra che le condizioni si ripetano: una rivolta causata da fattori «esterni» (nel senso che non era innescata da meccanismi sociali, ma dipendeva dall’umiliazione di una bruciante sconfitta militare) e nella quale la partecipazione popolare non aveva all’inizio carattere classista (anche i borghesi e i piccoli proprietari parteciparono in un primo momento alla sommossa) si trasformò col passare delle settimane in rivoluzione sociale, o meglio, socialista. La Comune, si è detto, è stato il primo stato socialista della storia. I rivoluzionari non si dettero solo un programma di riforme sociali, ma anche l’obiettivo dichiarato di istaurare un potere popolare ma, per la prima volta, non democratico, proprio sulla scia di quanto veniva predicato da Marx: la Comune parigina deteneva, insieme, potere esecutivo e potere legislativo. In fondo, era l’antenato, non troppo lontano, dei soviet russi.

Il nostro esame di questo drammatico episodio storico deve concentrarsi, ancora una volta, su una domanda precisa: giovò ai comunardi il programma radicale e estremista, e l’ostinato tentativo di volerlo realizzare subito a tutti i costi, anche quando l’intero paese era schierato contro di loro? Osserviamo quanto dice Lenin: 

Gli operai furono i soli a restare fino alla fine fedeli alla Comune. I repubblicani borghesi e i piccoli borghesi se ne staccarono presto; gli uni spaventati dal carattere proletario, rivoluzionario e socialista del movimento destinato ad una sicura disfatta.

E ancora, più avanti, nello stesso testo:

Abbandonata dai suoi alleati alla vigilia e priva di qualsiasi appoggio, la Comune era destinata alla disfatta.

Lo stesso Lenin riconosce che il «carattere proletario rivoluzionario e socialista del movimento» lo destinava ad una sicura sconfitta, per via dell’isolamento rispetto agli interessi del resto della popolazione francese.

La loro scarsa lungimiranza politica sta proprio nel non aver voluto porre il problema della vittoria e della durata del loro regime, che avrebbe, forse, assicurato alla lunga più benessere agli operai di quanto non poté fare la Comune. Di certo, i massacri seguiti alla sconfitta e al ritorno del governo legittimo del Thiers non giovarono alla causa operaia in nessun modo: e stiamo parlando di circa 20.000 esecuzioni. Come può essere vincente una battaglia politica che ottiene come risultato la morte di 20.000 dei suoi sostenitori? Tanto più che né la Francia né il mondo uscirono cambiati dalla rivolta del ’71 a differenza di quanto accadde, ad esempio, con la Rivoluzione Francese. Quel sangue ci pare, obiettivamente, solo un tributo troppo alto pagato alla difesa di una causa politica, quale essa sia.

Vi sono insomma alcune circostanze storiche in cui la situazione e il contesto permetterebbe di prevedere in maniera non troppo nebulosa il possibile sviluppo del futuro immediato. E di agire politicamente di conseguenza. Il caso dell’Italia nel primo dopoguerra è un caso del genere. Un caso in cui l’ennesima lezione della storia non fu ascoltata.

La dittatura e il regime fascista, in Italia, potevano essere evitati?

Per rispondere, ammesso che sia possibile, dobbiamo andare a verificare la consistenza delle forze di opposizione al fascismo. Scopriremo allora che le prime elezioni del dopoguerra in Italia, nel 1919, videro la schiacciante vittoria dei socialisti e dei cattolici: 156 deputati socialisti e 100 deputati cattolici, su un totale di 508 rappresentanti, salirono in Parlamento. Di fascismo, nel 1919, appena si parlava. Il fascismo iniziò a contare nei discorsi dei parlamentari e nella vita politica del paese (oltre che nella cronaca nera) sempre più man mano che cresceva la paura dell’insurrezione comunista in Italia. Gli anni del biennio rosso, e in particolare il 1921, vede crescere la violenza fascista in maniera imperiosa: 17 giornali assaltati, 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, e via dicendo, solo nei primi sei mesi. Il legame con l’inasprimento degli scontri sociali è evidente. A questo punto cosa accadde? Nel momento in cui era necessario imporre, con la forza del peso politico in Parlamento, ai governi liberali inattivi o velatamente compromessi con i fasci di combattimento un atteggiamento duro nei confronti dei fascisti, l’opposizione cattolica e socialista fa l’esatto opposto di ciò che serviva in quelle circostanze: invece, come si dice, di fare quadrato e difendere la società civile dalle arroganze fasciste, si spacca. I cattolici, impauriti dall’occupazione di fabbriche, timidamente si avvicinano ai liberali, e soprattutto i socialisti, proprio nell’anno più caldo in cui serviva la massima coesione e la massima unità, si dividono, e nasce il Partito Comunista. Poi Nasce anche il Partito Socialista Unitario di Matteotti, che si muove a destra del socialismo tradizionale, e la Confederazione del Lavoro pure si allontana dal partito per abbracciare simpatie comuniste.

La principale conseguenza di questo errore fu che i battaglieri comunisti di Gramsci e Bordiga non vollero fare causa comune con gli altri oppositori del fascismo, rifiutandosi per principio di collaborare con i liberali, e riducendo così ulteriormente le possibilità di una via di fuga dal fascismo, visto che i governi liberali dell’epoca, per cercare di avere una maggioranza, dovettero trovarla a destra, con il voto dei deputati fascisti. Al proposito si noti una considerazione di De Felice sulle motivazioni che spinsero Giolitti all’alleanza coi fascisti:

Nella linea politica che Giolitti sviluppò negli ultimi mesi del suo governo possiamo distinguere due fasi: […] nella prima fase Giolitti spera ancora che a Livorno al congresso socialista, avvenga il miracolo che egli ha atteso per tutta la vita: che il socialismo accetti di collaborare con lui, che, usciti i comunisti dal Partito Socialista, Turati possa sentirsi tanto forte da tentare la via del governo. […] Nella seconda fase, quando è ormai tramontata la possibilità dell’accordo con Turati, egli decide di fare le elezioni perché è sicuro che le elezioni ridurranno la forza dei socialisti, rendendoli più malleabili […].

Cosa sarebbe successo se si fosse avverata la speranza di Giolitti, se cioè i socialisti di Turati, isolando gli estremi, avessero accettato l’alleanza politica con i liberali, evitando che questa stessa alleanza fosse offerta ai fascisti, la storia non può dircelo. Ma per come andarono i fatti, è certo che dall’estremismo comunista e dal perenne rifiuto dei socialisti di partecipare al governo con Giolitti i fascisti trovarono l’occasione per far esplodere le loro campagne violente e reazionarie, ma soprattutto trovarono l’appoggio di quanti, pur non violenti nell’animo, non erano disposti a piegarsi alla paura del comunismo. E’ legittimo chiedersi cosa sarebbe successo se comunisti, socialisti e cattolici avessero rinunciato ai programmi estremi preoccupandosi piuttosto di frenare l’avanzata fascista attraverso un programma di coalizione e di cartelli elettorali.

Ma né i socialisti né i comunisti diventarono più malleabili, e con le elezioni del ’21 l’avvento del fascismo divenne inevitabile. E tutto questo fu fatto comunque in nome dell’imminente rivoluzione, che impediva qualsiasi compromesso con i meccanismi elettorali della corrotta democrazia borghese. E, quando, forse, c’era ancora un’ultima speranza di sconfiggere il fascismo, dopo l’assassinio di Matteotti, cosa accadde? Finalmente cattolici, radicali, socialisti, comunisti e persino liberali fecero causa comune scegliendo la via dell’abbandono del Parlamento. Ma una cosa è una forma di protesta, sui cui modi e tempi è facile essere d’accordo, e un’altra cosa è assumersi il coraggio e la responsabilità di governare, cosa che nel 1921 era ancora possibile in base ai numeri in Parlamento. Si noti il giudizio di Seton-Watson sull’Aventino: 

Questo atteggiamento intransigente nascondeva l’indecisione e l’impotenza dell’opposizione, che non aveva né un piano né un’organizzazione […] Come Turati scrisse sconsolatamente, era impossibile indurre i vari gruppi a concordare una linea positiva d’azione comune […]. 

Sull’Aventino ancora oggi si discute, per cercare di capire se sia stato il grande errore della sinistra italiana o se il corso delle cose non sarebbe comunque cambiato. Ma se ci sono stati momenti nella storia in cui si è posta in maniera piuttosto chiara ed esplicita la scelta fra l’errore sicuro e il rischio, questo sembra essere uno di quei momenti. Con le elezioni del ‘19 partito socialista e partito popolare avevano i numeri per governare, ma il veto dei socialisti alla partecipazione a governi di coalizione con i borghesi lo impedì. Due anni dopo, quando il pericolo di un progetto reazionario era molto più chiaro ed evidente, ancora una volta i socialisti posero il loro veto a un governo di coalizione col vecchio Giolitti. I comunisti pensarono che non era abbastanza, e si separarono per prepararsi alla rivoluzione. Nel ’24 forse c’erano ancora i margini per un’azione comune che, approfittando dello sdegno nazionale per la morte di Matteotti, poteva impedire l’avvento della dittatura. Ancora una volta, socialisti e comunisti ritennero che la situazione non consentiva l’alleanza con partiti borghesi. Mi sembra che si possa concludere, con un certo margine di sicurezza, che fu l’ostinazione e l’estremismo di alcuni capi politici della sinistra a consegnare l’Italia nelle mani del «duce» senza praticamente resistenza alcuna. Credo che non sia difficile trarre da questo esempio una lezione politica: quando vi è lo spettro di qualche pericolo imminente per la democrazia, è giusto e responsabile chiedersi qual è il male minore; irresponsabile è ogni comportamento di tipo opposto.

Vediamo ora il caso della Germania: ancora di più l’infelice e infausta sorte di questo paese fu causata dalla incapacità del movimento socialista di gestire la situazione politica controllando l’estremismo dei radicali, cosa che spinse il movimento socialdemocratico, sempre più snaturato, al fatale abbraccio con i circoli di destra.

Uno storico italiano, il Salvatorelli, dà conferma a questo giudizio con le seguenti parole: 

Poiché questo principio bolscevico era rifiutato dal governo provvisorio socialdemocratico, si ebbe una intesa temporanea fra questo e le forze conservatrici, a cominciare dalle alte gerarchie militari [..] Era sorta così un’antitesi fra la socialdemocrazia al potere e la punta avanzata del proletariato, quella che era sola a reclamare per sé tutto il potere.

E, più avanti, 

Per combattere il pericolo bolscevico e lo spartakismo essi [i socialdemocratici] accettarono la cooperazione di elementi borghesi di desta e di corpi militari volontari, con pregiudizio della democratizzazione sociale.

La conclusione è che:

L’equivoco tra l’aspirazione a uno stato democratico-parlamentare e il programma socialista rivoluzionario minò fin dal principio le fondamenta della nuova repubblica tedesca ed emerse in maniera scoperta nei momenti critici

È un fatto certo che i socialdemocratici hanno la loro parte di responsabilità nell’aver lasciato penetrare in larghe fasce del movimento sociale ed operaio l’idea dello stato forte salvo dall’estremismo rivoluzionario, aiutando la causa di partiti nazionalisti che poterono proclamarsi allo stesso tempo anche partiti operai, come il partito nazional-socialista. L’alleanza elettorale con le destre per la candidatura a presidente di Hindenburg rappresenta forse il momento culminante di tale scelta politica. Però il nostro obiettivo è quello di analizzare se l’esistenza di un estremismo ha contribuito o meno, nello specifico humus politico tedesco, ad aumentare la reazione sociale da parte delle forze di destra. E direi che questo, di fatto, è avvenuto: non importa di chi sia stata la colpa, ma è certo che la mancata alleanza delle forze di sinistra, e anzi la divisione ancor più dolorosa di quanto avvenne dieci anni prima in Italia, ha sicuramente favorito l’avanzata del nazismo, il cui aspetto antibolscevico sicuramente interessava molti socialdemocratici. 

A questo punto, riportiamo un ultimo, illuminante giudizio sulla situazione di Weimar:

A sinistra l’aspra polemica con i comunisti bloccava ogni possibilità di iniziativa unitaria alle masse lavoratrici […] La radice di questa frattura, storicamente determinata dalla progressiva estraniazione della socialdemocrazia dalle lotte delle masse lavoratrici, risiedeva nell’esistenza stessa di un partito comunista […] La frattura con i socialdemocratici divenne irreparabile allorché i comunisti, proprio nel momento dell’imminente ascesa nazista, furono indotti ad elaborare la teoria del «socialfascismo», che doveva generare il più profondo disorientamento tra le masse lavoratrici, nelle quali l’aspirazione all’unità era forse più viva e istintiva che ai vertici dei partiti operai. La polemica comunista colpiva bensì gli aspetti più deteriori della politica socialdemocratica, ma impediva al tempo stesso l’opportuna e necessaria distinzione tra il vero pericolo immediato, che era rappresentato dal nazionalsocialismo, e quella che era la funzione di passivo e indiretto favoreggiamento del fascismo obiettivamente esercitata dalla socialdemocrazia […] il divampare della polemica all’interno del movimento operaio sottolineò l’impossibilità di opporre una resistenza congiunta dei partiti di sinistra alla pressione reazionaria in generale e all’ascesa del nazismo in particolare.

Si può e si deve discutere ancora sulle responsabilità della socialdemocrazia e del partito comunista, per arrivare a capire a chi spetta l’ingrato merito di aver favorito di più l’ascesa al nazismo. Furono sicuramente i socialdemocratici a rifiutare per principio la collaborazione con le forze più a sinistra. Ma qanche le forze di sinistra, gli spartachisti, i socialisti indipendenti e il Partito Comunista in seguito, non erano disposti a collaborare. La responsabilità politica di aver rifiutato una scelta di coalizione per fermare Hitler tocca tutti i partiti dell’epoca, dal centro a sinistra. Fu insomma l’estremismo da entrambe le parti ad impedire in partenza che fosse pensabile un’alleanza elettorale. I socialdemocratici non la proposero mai, ma è anche vero che nemmeno i comunisti la chiesero, se non alle loro drastiche, irrinunciabili condizioni. 

Collotti ha osservato che le masse lavoratrici erano più disponibili dei capi politici alla soluzione unitaria. Perché? È semplice: perché le masse non erano inquinate di ideologia. Per loro è naturale che le forze di sinistra debbano unirsi per vincere l’avversario, e solo per questioni ideologiche ciò che è naturale può apparire inopportuno. 

Con questo si vuole dimostrare che la fede estremistica, derivante dalla meccanica applicazione dei principi e delle previsioni del materialismo storico, non ha aiutato, ma anzi ha danneggiato le forze di sinistra nell’Europa occidentale nei momenti topici del primo dopoguerra. Le ha infatti spaccate, piuttosto che unirle come nei sogni di Marx, perché non tutti i socialisti, e meno che mai i socialdemocratici tedeschi ormai già da tempo su posizioni revisionistiche, aderivano all’idea di una rivoluzione sociale sul modello di quella comunista, e molti avevano anche accettato l’idea che il loro compito sociale dovesse svolgersi serenamente all’interno di una forma di democrazia parlamentare. Resta da chiedersi se l’altra possibile soluzione, quella del riformismo più moderato, poteva essere, per quelle stesse forze di sinistra, una soluzione veramente praticabile, la qual cosa renderebbe ancora più grave l’errore di valutazione dei comunisti. La risposta, forse, possiamo trovarla nella storia della Francia in quegli stessi anni.

Il caso della Francia, per certi versi, è ancora più significativo per il nostro discorso: la situazione, tanto per cambiare, era esattamente la stessa. Crisi finanziaria dovute alle spese di ricostruzione (oltre 1200 miliardi di franchi), inflazione altissima (abbassò a 1/5 il valore della moneta), rialzo conseguente dei prezzi, crisi demografica, erano tutti fattori che portavano all’inasprimento delle tensioni sociali. Di questo inasprimento è specchio il continuo rimescolamento di coalizioni governative (simile alla debolezza dei governi liberali d’Italia), mentre la sinistra di opposizione era rappresentata dal partito socialista (SFIO) e il partito comunista di osservanza sovietica. Le destre si fecero sentire, dopo la crisi del ’29, molto più che non in Inghilterra, anche per la forte tradizione bonapartista e dirigista di una parte dell’opinione politica francese: divennero in quegli anni note le Croix de Feu, le Jeunesses Patriotes, e via dicendo. Del resto, dal punto di vista del radicalismo politico, la Francia non aveva bisogno di apprendere nulla dagli altri paesi. L’esperienza più significativa per i nostri scopi nella Francia del dopoguerra fu la realizzazione di una vasta coalizione elettorale, un cartello delle sinistre, dai radicali ai socialisti ai comunisti, il Fronte Popolare, presentato alle elezioni del 18 gennaio 1936, e uscito vittorioso tanto che la Francia poté avere un presidente socialista (Leon Blum). Il confronto con le elezioni del ’33 in Germania non può non balzare agli occhi: lì le sinistre moderate avevano dovuto accettare la candidatura di un vecchio conservatore come Hindenburg per evitare di disperdere i voti contrari al candidato nazionalsocialista Hitler, mentre i comunisti avevano gareggiato da soli con Thalmann, non superando il 20% dei voti. 

Comunisti e socialisti trovarono in Francia la forza di candidarsi insieme, e questa vittoria, come abbiamo già scritto nella prima parte, significò una serie di riforme incisive per la Francia lavoratrice: settimana di quaranta ore, aumenti di salario, riconoscimento dei diritti sindacali, compartecipazione alla direzione delle aziende. E questo accadde grazie all’unità proclamata dalla classe dirigente dei partiti della sinistra, quell’unità che abbiamo visto mancare in Germania e in Italia in quegli stessi anni.

Inoltre la Francia è stato uno dei pochi paesi in Europa negli anni ’30 a non finire sotto dittatura di destra (la dittatura di Petain è conseguente alla sconfitta durante la II guerra mondiale, e fu uno stato fantoccio piantato dai nazisti). 

Così come anche in Inghilterrra, dove il partito laburista si è sempre mosso nel seno della moderazione, e non ha mai avuto spazio un vero e proprio partito comunista radicale, non si è avverata mai una reazione delle forze di destra tale da sospendere la ordinaria attività parlamentare.

La storia ideologico-politica dei paesi europei tra ‘800 e ‘900 può portare dunque con una certa sicurezza alla conclusione che gli estremismi e le divisioni, in specie a sinistra (dove si ha frequentemente il difetto di puntare troppo all’ideale perfetto senza confrontarsi con i dovuti compromessi che la realtà impone), non hanno giovato alla causa delle classi sociali che quegli estremismi volevano difendere. Viceversa le destre negli anni ’30 hanno sempre avuto gioco facile (e visione strategica) ad allearsi e fare causa comune, tant’è che il fascismo per esempio in poco tempo vide la confluenza di tutti i movimenti di destra (arditi, nazionalisti, futuristi, ecc.) per quanto poco allineati inizialmente. La lezione storica del fare fronte comune non sembra essere una lezione imparata dalle sinistre, mentre anche l’attualità politica italiana ci dice che viene facilmente imparata ed applicata dalle destre. 

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