Una riforma del sistema attuale di vita e di funzionamento delle Nazioni Unite è la conclusione a cui il ragionamento teorico sviluppato nelle precedenti puntate conduce a partire dalle sue premesse. E non è l’unica conclusione. L’esigenza democratica non interviene solo nell’atto costitutivo degli organi del diritto internazionale.
Se è un parlamento di stati a eleggere secondo i meccanismi della democrazia da noi descritti, ovvero gli organi esecutivo (ad esempio il Consiglio di Sicurezza) e giudiziario (ad esempio il Tribunale Internazionale Permanente) per la soluzione dei problemi di giustizia internazionale, è chiaro che esso deve essere costituito dai rappresentanti dei singoli stati (stesso numero di rappresentanti per ogni stato, senza subordinazioni a principi di forza e potenza), ovvero dai tradizionali governanti o dai loro delegati. Si impone a questo punto che tali rappresentanti devono essere a loro volta democraticamente eletti, cioè rappresentativi degli interessi e delle volontà dei cittadini di quello stato, altrimenti il sistema giuridico internazionale assumerebbe decisioni che rischiano di andare contro gli interessi di alcune popolazioni. Il che significa che tale parlamento di stati è un parlamento legittimo solo se a sedervi sono i rappresentanti democratici delle popolazioni di ciascun stato (Kant), per le stesse ragioni per cui a capo dell’autorità statale deve sedere un rappresentante democraticamente eletto dal popolo. Si conferma così, e anzi trova una sua maggiore validità, la teoria che presenta lo status democratico come il più desiderabile per ogni istituzione statale.
L’idea di un’assemblea di stati sovrani, dotata dei poteri e dei meccanismi esecutivi delle assemblee democratiche delineate qui in realtà agevola la soluzione pacifica dei conflitti (come avviene quando in un parlamento si discutono esplicitamente gli interessi delle diverse fazioni e partiti in cui si divide la platea e poi si prende una decisione), a patto ovviamente che non esistano rapporti di forza predeterminati, per cui uno stato conta più di un altro (come accade oggi con il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza).
L’obiezione classica e storica a questa visione concettuale è sempre stata quella di sostenere che i fini della politica internazionale sono diversi da quelli della politica interna. Ma è oggi questa tesi ad avere adesso bisogno di una dimostrazione, e non la nostra. In che misura infatti i fini della politica internazionale potrebbero essere diversi? Si può pensare al caso in cui, nella visione hegeliana di sovranità, lo stato riconosca come unico suo dovere verso i propri cittadini quello di esprimere la propria supremazia a livello più alto possibile, disinteressandosi e anzi disprezzando il rapporto pacifico con altri stati. Ma una tale finalità è incompatibile con i presupposti della concezione dello Stato: i fini della politica estera di uno stato non possono andare contro le obbligazioni fondamentali del patto sociale, che sono quelle di proteggere i cittadini e garantire loro la pace. Una tale politica di potenza, volta all’affermazione della supremazia all’esterno, muove esattamente verso la direzione opposta, e può essere giustificata solo da una concezione dello stato come quella hegeliana, che non assegna il suo fine alla protezione degli individui. Ma di questa concezione è stata fatta giustizia da tempo, e anche in questa sede è stata affrontata la sua critica.
E’ pertanto più che credibile affermare che i fini della politica estera di uno stato sono gli stessi di quelli di politica interna, e cioè la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini. E a questo scopo, il mezzo più sicuro, rispetto alla condizione anarchica degli stati o alla sottomissione ai rapporti di forza, è la costruzione di un ordinamento internazionale, vincolante dal punto di vista giuridico, e rispettoso della volontà degli individui che vi partecipano, e quindi costruito su base democratica.
È un fatto della massima importanza che un ordinamento internazionale, dotato di potere sanzionatorio, come quello che abbiamo descritto negli articoli sul futuro possibile del diritto internazionale, non accetterebbe più la guerra come mezzo per regolamentare la eventuale violazione delle sue norme da parte di uno stato trasgressore. Non esiste guerra giusta in un tale ordinamento, se intendiamo per guerra l’intervento di uno o più stati contro uno o più altri.
Non esiste guerra giusta esattamente come non esiste, all’interno dell’ordinamento giuridico statale, la possibilità della «ritorsione giusta»: una volta che esista un sistema di polizia e un sistema giudiziario, è affidato allo stato, e non al singolo, la regolamentazione dei torti e delle trasgressioni. Allo stesso modo, in un sistema internazionale, è affidato all’ordinamento internazionale il problema di intervenire presso uno stato aggressore o trasgressore di norme: se l’ordinamento è dotato di un potere sanzionatorio e di un potere di polizia (come è stato supposto), cioè di un tribunale dalla giurisdizione illimitata e un esercito internazionale di polizia, non c’è rivendicazione di guerra che possa essere ritenuta giusta, anche da parte di uno stato che abbia subito un torto da un altro stato. Non c’è guerra giusta perché lo stato vittima ha i mezzi giuridici alternativi per rivalersi contro le ingiustizie subite. La violenza, ovviamente, derivante da un intervento dell’esercito internazionale contro lo stato trasgressore, non è evitata (anche se all’interno di un ordinamento internazionale sarebbe considerata come ultima risorsa, analogamente a quanto accade per le forze di polizia statali): ma è evitata la guerra, intesa come decisione soggettiva di uno stato di rivalersi contro un altro. Un sistema del genere, per la prima volta, risolverebbe definitivamente qualsiasi annosa (e pretenziosa) controversia sulla legittimità della guerra. Indipendentemente dai fini per cui è combattuta, la guerra di uno stato contro un altro o di un gruppo di stati contro altri non sarebbe mai giusta e giustificata, in nessun caso, come non lo è in nessun caso la vendetta individuale di un cittadino su un altro.
Solo un ordinamento internazionale dotato di tutti i poteri di cui oggi uno stato è dotato, e funzionante secondo i requisiti e i meccanismi della concezione democratica che abbiamo delineato, può garantire questi risultati.
Traendo spunto da un’osservazione di Bobbio (Il Futuro della democrazia, 1984), possiamo dire che la politica internazionale da sempre si è mossa nella direzione della salvaguardia della pace e dei diritti fondamentali degli individui, e questo per ovvie ragioni. È stato questo fine a spingere il percorso che caratterizza il rapporto fra gli stati verso tappe successive, a partire dalla fase anarchica, per passare a quella dell’equilibrio bipolare, fino alla fase attuale della sottomissione all’unico stato forte, che si erge come arbitro. La teoria politica, aiutata in questo caso dall’attualità storica che è sotto gli occhi di tutti, non può far altro che mostrare in tutta evidenza come questa fase non può essere quella duratura, poiché non assolve al suo scopo, la pace. Il passaggio successivo deve essere la sottomissione degli stati sovrani a un ordine internazionale fondato sul consenso democratico. «Il futuro della democrazia sta non solo nell’estensione del numero degli stati democratici […] ma anche e soprattutto nel proseguimento del processo di democraticizzazione del sistema internazionale. Il sistema ideale di una pace stabile può essere espresso con questa formula sintetica: un ordine universale democratico di stati democratici».
Questa prospettiva consente di legare in un’unica indissolubile costruzione teorica etica, politica, diritti umani, pace, democrazia e giustizia internazionale, non è più utopica di quanto non lo sia la visione cosmopolitica di Kant o l’idea di stato mondiale di Kelsen. Essa appare anzi come una strada praticabile, tutt’altro che impossibile, soltanto che si realizzi in ogni stato, o anche solo in una parte degli stati del globo, quella trasformazione della democrazia e verso la democrazia che è in realtà il suo inveramento.
Così riassume tutto il nostro argomento Luigi Bonanate: «È necessario definire, oggi, un contratto sociale mondiale, come sviluppo del classico contratto sociale di Locke e di Kant relativo alle singole nazioni. […] Oggi bisogna chiedersi se, sulla base dei diritti umani universali, non si debba agire come se tutti gli individui fossero decisi a costruire ognuno il proprio stato costituzionale nazionale e a concludere, in esso e attraverso di esso, un contratto sociale mondiale: un contratto, cioè, del quale non farebbero parte solo beni come life, liberty, estate, ovvero property nel senso di Locke, ma anche la protezione dell’ambiente, gli aiuti per la fame nel mondo, la tutela culturale delle singole identità nazionali e regionali. […] La società mondiale degli stati costituzionali si legittima in virtù dei diritti universali dell’uomo e dei diritti nazionali del cittadino. La democrazia pluralistica è oggi il garante, mentre le nazioni sono nel complesso i fiduciari della vita e della sopravvivenza dell’umanità ».