SECONDA PUNTATA – il futuro del diritto internazionale, da utopia a necessità

Cercheremo di mostrare in questa seconda puntata che un ordinamento giuridico internazionale maggiormente strutturato e quindi più vincolante di quello oggi esistente non solo è garanzia suprema della tutela dei diritti umani, ma è anche quanto ci si debba aspettare da una prassi di gestione della politica intesa a soddisfare i diritti umani fondamentali richiesti da ogni popolo. 

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Mostreremo inoltre che un tale ordinamento, se funzionante, assolve gli obblighi di un tribunale internazionale del tutto analoghi agli obblighi della giustizia ordinaria statale, risolvendo così una questione annosa e da sempre problematica: la necessità, l’opportunità e l’ineluttabilità della guerra. Intendiamo dire che un tale ordinamento affronta definitivamente il problema della definizione della guerra giusta, e lo supera eliminandolo alla radice: se esiste un tale ordinamento, nessuna guerra, a nessun livello di principio, può essere giusta. 

Mostreremo infine che tale ordinamento è possibile solo a patto di concepire le strutture istituzionali degli stati che vi concorrono come strutture democratiche. Se riusciremo in questo scopo, avremo ribadito quel legame fra diritti umani, pace, democrazia e diritto internazionale che da anni filosofi, politologi e studiosi del diritto internazionale vanno sostenendo con le parole illuminanti di Norberto Bobbio, il maggiore rappresentante italiano di questa categoria di pensatori: «Il riconoscimento e la protezione dei diritti dell’uomo stanno alla base delle costituzioni democratiche moderne. La pace è, a sua volta, il presupposto necessario per il riconoscimento e l’effettiva protezione dei diritti dell’uomo nei singoli stati e nel sistema internazionale […] Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti. Con altre parole la democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più soltanto di questo o quello stato, ma del mondo» (Bobbio, Età dei diritti , 1990).

Cominciamo dall’osservazione bobbiana, che crediamo non meriti aggiunte, sul fatto che i diritti umani sono meglio garantiti, anche all’interno del singolo stato, in condizioni di pace. E la pace, indubbiamente, si costruisce non solo all’interno ma anche all’esterno, con gli altri stati. Il mezzo è naturalmente la costruzione di trattati e accordi vincolanti per entrambi gli stati. 

Inoltre i principali diritti umani sono oggi oggetto di una tutela che non è solo statale, ma sovra-nazionale, nella misura in cui la Dichiarazione Universale del 10/12/1948 ha sancito la difesa dei diritti dell’uomo (quantomeno di quei 30 diritti in essa sanciti) come problema di tutti gli stati, insieme, e non solo come stati singoli. Da questo momento, la storia ha segnato un passaggio straordinario: non solo ogni stato ha riconosciuto il suo obbligo di proteggere i diritti umani del proprio popolo, ma ha riconosciuto anche l’obbligo di rispettare i diritti umani degli altri popoli. Se fosse stato creato all’uopo un organo internazionale per l’esecuzione di sanzioni coattive contro le violazioni di questo principio, si sarebbe creata, di fatto, per la prima volta nella storia una comunità politica internazionale, un autentico stato mondiale, giacché il rispetto dei diritti umani, presupposto fondamentale della costruzione del patto su cui si fonda la nascita dello stato, avrebbe acquisito una giurisdizione universale e coattiva, proprio come all’interno dei confini di un singolo stato.

Ciò significa che negli ultimi cinquant’anni la politica, almeno sotto questo aspetto, ha preso davvero una direzione etica coerentemente con i suoi scopi: i governanti degli stati del mondo hanno aderito a una serie di raccomandazioni e trattati, allo scopo di riconoscere, rispettare, difendere e tutelare i diritti umani e la pace internazionale (gli uni in funzione dell’altra e viceversa), seguendo le esigenze delle proprie popolazioni o almeno agendo in maniera rispondente ad esse. 

Dove è che il sistema si è inceppato, finendo per produrre, fra grandi successi, anche grandi ingiustizie fra cui l’arbitraria gestione delle crisi bosniaca, africana, mediorientale?

Si è inceppato nella creazione di un sistema di produzione di diritto internazionale del tutto formale, privo di alcuna forza coattiva. Ciò fa sì che l’adesione degli stati ai trattati internazionali sia alta ma vuota di contenuti, potendo gli stati agire in pratica in maniera opposta a quanto prescritto dai trattati. Un trattato infatti acquisisce potere vincolante nella misura in cui esiste un organo chiamato a sanzionare il comportamento non rispondente alla norma. 

In linea puramente formale, questo è quanto è accaduto con la ratifica da parte dei 60 stati del Tribunale Internazionale Permanente creato nel ’98 con lo statuto di Roma. Questa ratifica ha reso effettivo il potere del tribunale all’interno di questi stati. È per questo che, a cinquant’anni esatti dalla Dichiarazione, si può dire che l’evoluzione del diritto internazionale ha solcato un’altra tappa importante, storica senz’altro: la nascita di un potere giudiziario internazionale. 

E tuttavia la strada è ancora lunga poiché il tribunale non è vincolante per gli stati che non lo hanno ratificato (il presupposto soggettivistico dello sviluppo del diritto internazionale si fa sentire ancora una volta in tutta la sua forza) e resta da vedere se esso sarà mai messo in condizione, allo stato attuale, di operare davvero con imparzialità ed efficacia anche all’interno della giurisdizione degli stati membri.

In sintesi: l’atteggiamento soggettivistico degli stati rispetto al diritto internazionale ha fatto sì che in cinquant’anni crescesse il numero dei trattati internazionali e delle ratifiche, ma non affatto il numero degli stati che effettivamente seguissero le raccomandazioni previste da quei trattati, per mancanza di un potere sanzionatorio. In linea di principio questo potere oggi esiste, ma di nuovo l’atteggiamento soggettivistico impedisce che tutti gli stati, e proprio tutti, siano sottoposti con imparzialità a tale potere, vanificando di fatto la sua esistenza. Quale potere, quale autorità e quale rispetto può avere un giudice che è limitato nelle sue possibilità di indagine e nel suo potere di condanna?

Il rispetto per i diritti umani, a cui ogni potere statale è vincolato dal patto fra i suoi cittadini, esige la ratifica senza eccezioni di tutti i trattati che implementano i principi della Dichiarazione, e soprattutto esige la ratifica degli strumenti coattivi che rendono effettivo il rispetto dei diritti, né più né meno di come in una singola comunità la richiesta del rispetto dei propri diritti esige la costruzione di un ordinamento giuridico coattivo che garantisca tale rispetto. Lo esige nel senso che è un obbligo morale e politico, per i governanti, condurre i propri cittadini verso quel sistema internazionale che garantisca al massimo livello il godimento della pace e dei diritti fondamentali.

Un governante potrebbe obiettare che egli ha obbligo solo verso i suoi cittadini, e che questo obbligo lo vincola a fare di tutto per rispettare i diritti dei suoi cittadini, ma non quelli degli altri popoli: ma come nell’uscita dallo stato di natura un individuo si dispone a rinunciare a certe prerogative per vedersene garantite altre più importanti, così nella contrattazione con altri governanti di altri stati il soggetto politico si assicura da parte di questi il rispetto dei diritti per i suoi rappresentati attraverso l’assicurazione, a sua volta, che egli rispetterà i diritti degli altri. È così che si garantisce la pace: non c’è un nuovo contratto sociale fra stati, in analogia al contratto sociale fra individui, ma è lo stesso contratto sociale che si allarga ad altri soggetti, per materie e argomenti di natura più limitata e specifica, ma per i quali le procedure sono le stesse: do ut des, io riconosco i tuoi diritti se tu riconosci i miei.

L’auto-limitazione delle prerogative di uno stato a favore di un organo terzo che deliberi con tanto di potere sanzionatorio introduce ovviamente il problema dell’imparzialità di tale organo, né più né meno di quanto detto da Hobbes a proposito della necessità che il garante del patto fra i cittadini sia un arbitro imparziale e dotato di autorità su tutti i membri del patto. L’analogia è forte, in quanto anche in questo caso si tratta di sottomettersi volontariamente a un potere superiore rinunciando a proprie prerogative. È chiaro che ciò può essere fatto solo se si ha fiducia nell’imparzialità, nell’autorità e nel rigore morale potremmo dire dell’organo in questione.

Questo fatto pone gli stessi interrogativi già affrontati nell’applicare il modello contrattualistico al patto fra individui di una comunità: è chiaro che ogni stato vorrà affidare un potere così grande e importante a un organo super-statale solo se esso garantisce la sua rispondenza alle esigenze per cui è stato creato.Procede allora dall’analogia con la situazione già affrontata per il caso degli individui di una comunità il fatto che tale organo (o il potere emanatore di tale organo) deve essere un legittimo rappresentante democratico degli stati che partecipano alla definizione di questo processo giuridico. L’assemblea delle Nazioni Unite potrebbe essere un sufficiente candidato allo scopo, ma di fatto ad assolvere le funzioni che qui sono postulate oggi è il Consiglio di Sicurezza, tutt’altro che democratico rappresentante degli interessi di tutte le comunità politiche del globo.

Concludendo: l’organo rappresentante la comunità degli stati deve essere democratico, e sue dirette emanazioni devono essere gli organi competenti per l’esecuzione delle norme previste dai trattati e l’assunzione in giudizio delle questioni relative all’applicazione di tali norme. 

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